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Rinunciò ai suoi tentativi, e ficcandosi l’involto sotto il braccio, uscì. Passando davanti alla cabina di Joane vide la porta aperta e la donna in piedi in atteggiamento pensoso. Non aveva nessuna voglia di fermarsi e si limitò a dirle: «Vado di fretta. Ho una cosa urgente da fare.»

Lei accennò con la testa di aver capito.

In quel momento l’involto scivolò da sotto il braccio dell’americano. Lui non fece in tempo ad afferrarlo e, sgusciando dalla tela, la statuetta piombò pesantemente al suolo. Dan fu svelto a raccoglierla e sperò ardentemente che Joane non l’avesse vista, poi, furente di collera contro quel maledetto oggetto, si allontanò in fretta senza voltarsi e salì sopraccoperta.

La notte era chiara e tiepida. Una luna rotonda e gialla come un limone splendeva alta nel cielo, verso est. La WesternQueenscivolava placida sul mare calmissimo.

Dan imprecò tra sé alla notte chiara e alla frescura dell’aria salmastra: c’erano passeggeri dappertutto. Alcuni fumavano tranquillamente appoggiati al parapetto, altri si godevano il fresco allungati sulle sedie a sdraio, altri ancora passeggiavano su e giù. Non sarebbe riuscito a gettare il piccolo pacco oltre il parapetto senza attirare l’attenzione di qualcuno. L’unico modo di passare inosservato era quello di sollevare piano la statuetta sino al punto giusto e lasciarla piombare in mare, ma non aveva forza sufficiente.

Percorse tutta la passeggiata, si inoltrò nel corridoio, esplorò ogni angolo, ma c’era gente dappertutto. Qui, marinai intenti al loro lavoro, là innamorati che si scambiavano parole dolci, e ancora ombre solitarie in contemplazione. Sempre con la statuetta sotto il braccio Dan tornò sottocoperta. A mezza strada tra l’inizio del corridoio e la sua cabina vide una porta metallica a fianco di una pompa antincendio. L’aprì. Dentro c’erano altre pompe arrotolate. Si diede una rapida occhiata intorno per accertarsi di non essere osservato, poi cacciò il pacchetto sotto il grosso rotolo, chiuse la porta e si allontanò provando un gran conforto nel non sentirsi più in possesso della orribile statuetta. Ancora più lo rassicurò il fatto di notare che la porta di Joane era chiusa. Non ci teneva affatto a farsi vedere nello stato pietoso in cui doveva averlo ridotto la tensione di quell’ora.

Rientrò in cabina e si abbandonò liberamente al tremito che lo scuoteva. Un po’ di whisky, ecco quello che ci voleva. Se ne versò un bicchiere e andò a berselo sul letto, dove rimase disteso finché non si sentì meglio. Guardando l’orologio si accorse con sorpresa che erano già le dieci. Aveva dato un appuntamento a Joane per le nove e mezzo! Accidenti, sarebbe stato di nuovo in ritardo! Lo consolò un poco l’idea che molto probabilmente anche lei non era pronta. Comunque, tardi o no, doveva prendere una buona doccia per rimettersi in sesto.

Si spogliò e preparò sul letto la biancheria pulita. Si concesse anche il lusso di una sigaretta prima di ficcarsi sotto l’acqua. Il refrigerio della doccia gli donò un senso di grande benessere e cambiò totalmente la disposizione del suo spirito, tanto che si sorprese a fischiettare una canzone. Sorrise ricordandosene il titolo: Così come mi appari questa notte. Ma improvvisamente il sorriso gli si gelò sulle labbra. L’espressione beata di piacere scomparve dalla sua faccia non appena si rese conto che quella frase poteva riferirsi a qualcun’altra oltre a Joane. Per quale malaugurato caso, tra le mille canzoni in voga, gli era venuta in mente proprio quella?

Si insaponò la faccia e il collo. Anche il profumo del sapone lo irritò: odorava di rose, un profumo troppo dolce che lui detestava. Nel magazzino dove aveva fatto gli acquisti si era limitato a chiedere al commesso il sapone più costoso pensando che la qualità andasse di pari passo con il prezzo… E adesso… Accidenti! L’odore di rose gli faceva venire in mente i fiori, e i fiori nella sua mente si associavano soltanto alle camere dei malati… o ai funerali.

Continuò a insaponarsi con energia il petto e le spalle, e intanto pensava che stava facendo terribilmente tardi. Aprì del tutto il rubinetto.

«Tom!» disse una voce.

Dan si sentì accapponare la pelle.

«Tom!» ripeté la voce.

Dan si voltò. Il getto d’acqua lo colpì in pieno sulle spalle, gli corse per tutto il corpo spruzzando intorno, ma non bastò per rallentare i battiti del suo cuore che sembrava impazzito. Joane era lì, davanti a lui, inquadrata nel vano della porta, trasfigurata da un’estasi. L’azzurro dei suoi occhi aveva acquistato lo splendore misterioso e infinito delle stelle, i capelli sparsi sulle spalle brillavano su un lato simili a un raggio di luna, ma sull’altro si addensava il nero cupo di una notte di tempesta. Affascinato, Dan fissava senza comprenderla quella bellezza stupefacente e il contrasto assoluto, irreale di quei capelli. Joane indossava una camicia da notte di seta bianca, con la vita segnata alta, stile Direttorio. La seta sembrava fondersi sopra i piccoli piedi calzati di sandali piatti che lasciavano libere le unghie ben curate e smaltate con la medesima tinta rosso sangue usata per le mani. Il busto della lunga camicia era un pizzo lavorato a larghe maglie e lasciava intravvedere il seno in netto contrasto con le pieghe castigatissime della gonna.

La donna teneva tra le braccia la statuetta.

La forma verdastra dai contorni incerti emetteva un fantomatico bagliore e vibrava contro il petto di Joane che la stringeva forte.Idue seni sembravano dotati di vita propria e si tendevano perdutamente verso il piccolo idolo.

«Tom…»

La voce era appena un mormorio dolce e diceva: «Non t’importa di essere sotto l’acqua, tra le rocce bianche e rosse, tutte intorno a te, vero? Tu non sei in collera con me perché ti ho nascosto nello stagno, vero? Sai, mi sono tuffata per spingere il barile in quel crepaccio e poi ho accumulato pietre e sabbia sull’apertura, così nessuno potrà notarla. Ma tu non sei in collera con me, vero Tom?»

«No» mormorò Dan, e stentò a riconoscere la propria voce, roca e lontana.

Le parole che Joane sussurrava avevano la magia di una favola.

«…Sapevo che non ce l’avevi con me. Per questo sono venuta ogni giorno a sedermi in riva allo stagno. Ogni giorno dell’estate, per parlare con te. E nell’inverno, quando c’è la nebbia. E poi ancora durante tutta la nuova estate. Ma per te non ci sono più stagioni… Estate… Inverno… Tutto è uguale per te, in quell’acqua profonda, nelle tenebre senza fine.»

La tensione crebbe fino a diventare insopportabile. Sotto il getto d’acqua sempre violentissimo, Dan girò su se stesso e si aggrappò freneticamente al rubinetto. La doccia cessò di colpo quando Dan si voltò di nuovo, Joane era scomparsa. L’americano sentì il tonfo della porta esterna, che si richiudeva. Afferrò una salvietta e si asciugò con furia, in preda al panico. Tutti i suoi movimenti rivelavano una emozione violenta, e lui sentiva avvicinarsi il momento in cui si sarebbe compiuta una mostruosa maledizione. Joane l’aveva forse spiato nel momento in cui nascondeva la statuetta? Aveva trovato quell’idolo malefico mentre era in preda a una crisi di sonnambulismo, o ne era stata inspiegabilmente attratta? Aveva davvero ucciso suo marito o si era immaginata di averlo fatto dopo essersi tormentata un anno sulla sua scomparsa?

Impossibile saperlo, e non era quello il momento di perdere tempo in supposizioni. Bisognava che la statuetta diabolica finisse in mare, immediatamente. L’avrebbe gettata dal parapetto del ponte anche se il suo gesto avesse avuto testimoni. Si infilò in fretta la vestaglia e le pantofole e aprì la porta che dava sul corridoio. Nessuno.

Arrivato davanti alla cabina numero trentasette, bussò. Non ricevendo risposta tentò la maniglia che cedette, e Dan entrò. Richiusa la porta con cura, rimase qualche secondo immobile in ascolto. Silenzio. Da quanto tempo Joane l’aveva lasciato? Cinque minuti? Dan si diresse verso la camera.