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Cosa farò io quando gli esseri di questo superuniverso si manifesteranno? Cosa potrò fare e come potrò sconfiggerli? È evidente che nessuna tra le forze elementari in possesso degli uomini, nessuna forza terrestre li può combattere poiché essi soggiacciono soltanto alle loro leggi superne, alle regole di uno spazio e di un tempo che ci sono estranei, a concetti di una più grande complessità, d’un genere di vita completamente diverso dal nostro, d’un genere di energia e di potenza infinitamente superiore. Bisognerebbe poterli affrontare nel campo dei loro stessi elementi, ma come? C’è forse un indizio, una chiave che ne riveli il modo, nel materiale che ho raccolto? È possibile scoprire la natura del loro mondo infinito? E se queste entità hanno davvero creato la vita umana, da chi a loro volta sono state create, e come sono fatte?

Potrebbero essere tanto organici quanto inorganici, o l’una e l’altra cosa insieme con l’aggiunta di energia pesante. Potrebbero anche essere privi di qualsiasi sostanza: energia pura, puro concetto, forza pura, sfuggenti a ogni analisi e privi di forma stabile. Se una emanazione gassosa potesse parlare, un lampo di luce pensare, il mercurio respirare, forse allora potrei comprendere meglio i Titani. Ma non sono in grado di dare nessuna risposta a tutti i miei interrogativi. Posso soltanto aspettare, vegliare, e sorvegliare l’Isola di Pasqua.

Forse succederà qualcosa.

11

La sensazione di trovarsi solo, di sentirsi solo sull’Isola di Pasqua, fu una sorpresa per Graham. Le altre volte vi aveva sempre incontrato qualche indigeno o qualche rappresentante del governo cileno.

L’aereo, che l’archeologo aveva noleggiato perché lo portasse sull’isola, gli aveva lasciato viveri e materiale vario sufficiente per un mese, anche se doveva ritornare la settimana seguente, secondo gli ordini di Graham.

Il silenzio dell’isola aveva qualcosa di innaturale. Il frangersi incessante delle onde e le grida dei gabbiani formavano una specie di sottofondo al quale avrebbero dovuto sovrapporsi voci umane. Invece, quando quei suoni che erano parte integrante dell’isola erano stati assimilati in modo da non essere più avvertiti, tutto quello che Graham sentiva era il sibilo del vento che passava a raffiche sulla sua testa.

L’archeologo era arrivato sull’isola a pomeriggio inoltrato, troppo tardi per cominciare le esplorazioni. Si cucinò quindi una leggera cena su un fornello da campo e contemplò lo spettacolo del tramonto. Qualche stella brillava pallida nel cielo e gli umidi vapori della terra rendevano scarsa la visibilità. Guardandosi in giro, Graham non riuscì a vedere tracce di fuochi da bivacco né udì alcuna voce. Il fatto era molto strano. Gli indigeni di solito si mostravano curiosi nei confronti di ogni forestiero poiché accadeva raramente che qualche visitatore scendesse sull’isola. Graham sentì molto la mancanza di quella discreta curiosità, e quando finalmente si addormentò, fu disturbato da sogni continui.

Alle prime luci dell’alba cominciò una sistematica esplorazione dell’isola, della quale conosceva perfettamente la topografia grazie alle sue precedenti visite. Ecco il Rano Raraku. Non si poteva sbagliare: era il vulcano dominatore dell’isola. Graham lo prese come punto di riferimento, poi si mise in cammino.

Prima di mezzogiorno la sua impressione fu confermata: nell’isola non c’era un solo essere umano oltre a lui. Anche questo era un mistero. Possibile che gli indigeni fossero morti tutti dopo la sua ultima venuta, o che gli agenti del governo li avessero portati in Cile? Forse era scoppiata una epidemia e i superstiti erano fuggiti, o si trattava di una pacifica emigrazione in massa… o qualcosa li aveva spaventati. L’archeologo ricordò che nel gennaio precedente, un mercantile, uscito di rotta per una tempesta, aveva segnalato la sparizione dell’Isola di Pasqua. In seguito però si era accertato trattarsi di un erroneo calcolo di navigazione.

Comunque fosse, quel posto non era mai sembrato a Graham tanto desolato, e l’assenza degli abitanti non contribuiva certo a diminuire questa impressione. Tra tutte le isole, quella era sicuramente il pezzo di terra più ingrato. Vulcanica, a grandi massi di basalto, con un suolo poroso e arido. Rocce frastagliate ne cingevano le rive difese da un’irta scogliera. Da Akahanga a Toa-Toa, enormi statue svettanti nel cielo, o stese a terra simili a giganti addormentati, coprivano il suolo. All’interno, sui fianchi del Rano Raraku, cantiere di immani scultori, altri colossi rifiniti o appena abbozzati volgevano al mare i loro occhi di pietra.

Con l’incessante flusso e riflusso delle onde, giorno e notte, di tutti i giorni e tutte le notti da innumerevoli anni, l’oceano eterno scandiva sulle rocce un requiem solenne, canto perpetuo dedicato alle fantastiche statue scolpite da mani dimenticate.

Immani giganti di pietra. Immutabile ghigno su facce imperiose che soltanto i venti e le tempeste potevano a stento limare senza riuscire a cancellare. Chi aveva eretto le piattaforme funebri che si elevavano in blocchi titanici sopra la scogliera? Quale razza scomparsa aveva lasciato al mondo una simile eredità? Migliaia di statue sorvegliavano instancabilmente l’oceano in attesa… Attesa di che?

Dopo che il navigatore olandese Roggeveen aveva per primo messo piede sull’isola all’inizio del XVIII secolo, quella terra era stata avvolta da un’atmosfera di mistero. Tutti coloro che avevano visitato quell’impero della desolazione, perso negli agitati mari del Sud, si erano sentiti attrarre dall’enigmatico fascino che emanava dall’irreale atmosfera. Fascino ed enigma che Graham giudicava più sconvolgente ancora di quelli esercitati dalla Sfinge.

Numerose generazioni di uomini dovevano essere occorse per scolpire il basalto, erigere le statue, costruire le piattaforme. Come avevano potuto vivere su quell’isola diseredata? Era fuori di dubbioche il soggiorno in quel posto era possibile solo a pochi uomini per volta. E allora? Bisognava attribuire le gigantesche costruzioni ad altra opera che non fosse quella dell’uomo? Perché poi le statue, non appena finite, erano state misteriosamente abbandonate, e alcuni monoliti poi erano stati lasciati allo stato di abbozzo?

Nel corso degli anni, numerose spedizioni scientifiche si erano recate sull’isola per studiare il fenomeno, ma nessuna ne aveva riportato altro che congetture sull’identità degli scultori, l’epoca in cui erano vissuti, e lo scopo delle loro opere.

Ma questa volta Graham avvertì qualcosa di ancor più terribile e oscuro del solito nell’aspetto dell’isola. Durante le sue visite precedenti, la presenza dei pochi indigeni che vi soggiornavano aveva in un certo senso addolcito e reso sopportabile l’impressione angosciosa destata dalla visita degli inquietanti colossi. Bastava vederseli attorno per sentirsi rincuorare.

Ma adesso, nessuno. Non il più piccolo suono di voci umane, non lo scalpiccio amico dei piedi scalzi… E la loro scomparsa non serviva che a infittire il mistero.

Le raffiche di vento soffiarono impetuose tutto il giorno. Il mare biancheggiava di spuma e le lunghe onde si frangevano sugli scogli con un sordo muggito. L’aria era satura di vibrazioni e Graham non si nascondeva di essere preoccupato: conosceva bene quel posto, pure aveva la sensazione di trovarsi di fronte a un mondo ostile e sconosciuto. L’archeologo trascorse il pomeriggio esplorando il lato sud, da Akahanga fino al Rano Raraku, lungo la spiaggia. Si fermò a lungo a contemplare i mostri imperturbabili che, fieramente ritti contro il cielo o stesi a terra, conservavano nelle facce di pietra un’espressione da superbi conquistatori. Il sottile rilievo delle labbra, il naso forte, gli occhi tristi, gli zigomi molto alti davano a quelle facce l’impronta di una razza sovrumana.