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Poi il sole si abbassò verso il mare e le ombre s’allungarono al suolo nel tramonto vicino. Nelle cavità delle rocce, negli avvallamenti del terreno, scese l’oscurità, e i lineamenti degli uomini di pietra parvero accentuarsi nel gioco di luce e d’ombra mentre il vento soffiava più forte e l’oceano intonava il suo canto profondo in un brontolio di tuono. Graham stava girando attorno a un grande tumulo presso Toa-Toa, quando vide un solco recente che partiva dalla riva. Pur frastornato dal soprannaturale che lo circondava, lo scienziato riusciva a mantenersi aderente alla realtà, e osservò che il solco si interrompeva bruscamente in modo inspiegabile. Si sarebbe detta l’impronta di un enorme cavo che avesse inciso il duro terreno come una lama d’acciaio. La strana fessura continuava nell’interno sotto forma di passi giganteschi che a un certo punto avevano polverizzato alcuni blocchi di basalto di una piattaforma per dirigersi verso il Rano Raraku che spiccava nella penombra del crepuscolo con la sua mole funesta.

Qualcosa era dunque sorta dal mare, e un’altra cosa era andata incontro e l’aveva trasportata al cantiere degli dèi, sul vulcano. Graham volse lo sguardo al cratere del monte desolato, poi ritornò al suo campo.

Il vento ululava in modo strano, le ombre invadevano rapidamente l’isola, e nell’immaginazione dell’uomo ogni tumulo, ogni statua diventava la fantastica apparizione di un sogno. Gli sembrava che da una distanza infinita giungesse l’eco di voci cosmiche, fremiti, sussurri. Né pianto, né riso, soltanto suprema indifferenza. La forza del vento aumentava di minuto in minuto. Un pezzo di roccia si staccò e cadde. Il mare flagellava la scogliera con violenza selvaggia, staccandone frammenti che precipitavano nei flutti. Graham si voltò verso il Rano Raraku, ma ne distolse subito lo sguardo. Gli era sembrato di veder splendere sopra il cratere una luce disumana, fantomatica, che irradiava intorno colando come lava, e il colore non assomigliava a nessun altro. Era uno splendore indescrivibile, e Graham non aveva il coraggio di voltarsi ancora a guardare. Qualcosa in lui si rifiutava di accettare quello spettacolo. Orribile, ambigua e fluida, esaltante e viva, quella luce denunciava la terrificante presenza di un essere inimmaginabile, di una intelligenza visibile e priva di corpo, concentrata al massimo ma pronta a espandersi all’infinito. E pulsava, come una vena, come un cuore, al sommo del cratere. Questa era l’impressione che aveva ricevuto Graham, ma non ne era certo, perché l’aveva contemplata stupito e spaventato per un breve attimo, volgendosi subito con orrore a proseguire per la sua strada.

E il vento continuava a urlare, mentre il mare sconvolto si accaniva contro le sponde irte di rocce nere, contro la base dei contrafforti dove gli uomini di pietra, impassibili, stavano di sentinella.

Graham si preparò una rapida cena, e mangiò in fretta senza gustarla.Isuoi gesti erano meccanici e la sua mente occupata e preoccupata unicamente dal fenomeno al quale aveva assistito. Alla luce di una lampada, l’archeologo studiò ancora una volta le sue note, poi, nell’oscurità, fece una cosa strana: mosse silenziosamente le labbra, come chi ripeta tra sé un discorso, ben attento a non emettere il più piccolo suono. Era molto tardi quando si coricò, e più tardi ancora quando riuscì a prender sonno perché con il passare del tempo sentiva aumentare su di sé la pressione delle forze che aleggiavano intorno all’Isola di Pasqua divenendo sempre più violente. Graham avvertiva in distanza la presenza di quel bagliore fluttuante sul Rano Raraku, insistente, proteso verso gli abissi.

Infine l’archeologo cadde in un sonno nervoso, interrotto da frequenti risvegli colmi del fragore del vento e delle ingiurie del mare. Una volta gli sembrò anche di sentire l’eco di voci lontane, senza gioia, inumane, e lo smorzarsi di un grido, ma era soltanto la sua stessa voce uscita da un incubo. Le stelle brillavano debolmente sopra di lui come candele al loro ultimo guizzo. Immensa era la solitudine del mare, del cielo e della terra, quale non sì sarebbe creduta possibile. Sembrava che il mondo intero fosse stato inghiottito, e che lui si ritrovasse, ultimo e unico essere vivente, su una terra devastata.

Poi Graham si riaddormentò, e fece un sogno.

Solcava come una cometa gli immensi spazi al di là del Sistema Solare, più veloce di una meteora, più veloce della stessa luce. Piombava in avanti con una tale rapidità che le stelle e le galassie gli sfilavano accanto come fossero mosche, per spegnersi poi, dopo il suo passaggio, mentre lui copriva distanze astronomiche. E una strana distorsione si produceva nello spazio che si incurvava in maniera astratta, e i milioni e milioni di anni luce che aveva percorso svanirono.

Poi le galassie e le nebulose furono dietro di lui. Tutto l’Universo era scomparso. Graham non aveva esistenza e proveniva da regioni fuori d’ogni concetto oltre la speculazione, al di sopra di tutte le teorie. E dopo il caos informe, il suo io che viveva quel sogno si posò su una materia organica e si sentì osservato attraverso le lenti di un colossale microscopio. L’archeologo non era che una semplice molecola in un cosmo a sei dimensioni. Era diventato un microbo.

Con l’illogicità fantastica dei sogni, la visione era durata solo un attimo. Tutto era successo in un infinitesimale momento, ma adesso, con la paradossale lentezza dell’eternità combinata con la velocità del pensiero, i Titani si accorsero della sua presenza. Graham vide allora le figure fluttuanti protendersi da altri cieli, impercettibili ai sensi umani, perpetuamente vibranti nei cicli della pulsazione, turbinanti attraverso l’immensità delle loro superesistenze. Essi avevano avvertito la presenza dell’intruso nel loro regno, e Graham sapeva di essere stato notato. Sentì irradiare da loro una grande forza.Ipensieri, la volontà, la vita e il loro compito gli erano assolutamente incomprensibili, ed ebbe l’impressione di essere diminuito, respinto, microrganismo ricacciato al suo posto, considerato alla stregua di una cellula di galassia, di una molecola di stella appartenenti a un universo inferiore.

Si svegliò di colpo con la pelle arida e bruciante, e rimase qualche tempo con gli occhi aperti ad ascoltare il respiro possente del vento e la voce fantastica del mare.

Un’alba grigia salutò il definitivo risveglio dello scienziato, e la visione fantomatica dell’isola prese il posto del terrore notturno e dei suoi incubi. Era sfinito e nervoso, quasi avesse passato una notte insonne. La sua mente era ancora piena delle visioni misteriose e profetiche che avevano ossessionato il suo subcosciente.Imassi rocciosi e i giganti di pietra conservavano, nella nebbia del mattino, il loro impressionante potere e la loro minaccia di realtà inumana. Il vento era ancora più impetuoso, e le raffiche, cariche delle minutissime gocce della spuma marina, impregnavano l’aria di umidità salmastra. Più alte sulle onde s’alzavano le creste impalpabili, e l’oceano ribolliva furioso.

Quando si alzò in piedi, l’archeologo ebbe un capogiro: il terreno ondeggiava. Il vento staffilava il viso dell’uomo, ma nell’aria vi era un altro elemento, strano, indecifrabile, quasi una vibrazione contenuta. Una striscia di cumuli attraversava il cielo all’orizzonte, e in alto, grosse nubi frastagliate, nere come la fuliggine, correvano veloci verso nord spinte dal vento. Graham sapeva che l’apparente placidità dei cumuli e dei cirri era ingannatrice nel Pacifico, e che in realtà le soffici nuvole erano sempre foriere di tempeste violente o di repentini mutamenti di tempo.

Accompagnato dal vento e dal frastuono del mare, Graham si mise in cammino fiancheggiando il cimitero dei giganti.Imonoliti e le statue ciclopiche lo opprimevano con la loro presenza, e gli impedivano di pensare. Da due giorni non vedeva essere umano e non ascoltava altre voci che quelle della natura, e la sua unica compagnia era stata la profusione di mostri di pietra. L’archeologo si fermò nel punto in cui il terreno era solcato dalla gigantesca orma chiedendosi da che parte avrebbe dovuto dirigersi. Decise infine di procedere verso il Rano Raraku seguendo le impronte segnate nel basalto, a larghi intervalli, quasi fossero passi di un essere colossale. Continuò a camminare riprovando il terrore della notte passata, quasi che la realtà fosse solo il seguito dell’incubo, sentendo tutto il peso della solitudine accresciuta dalla coscienza che le orme erano veramente state impresse da una creatura ciclopica. Pensò alla statuetta verde di Isling chiedendosi se non fosse stata lei a produrre il solco profondo sulla riva nel giungere all’isola, e se non avesse nel frattempo subito una straordinaria metamorfosi. Era un’idea pazzesca la sua, certo, ma non più di quello che aveva visto e vissuto nel corso degli ultimi mesi.