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— Se la mia carne si agita, io non lo so — disse Orem. — Il mio problema non è la mancanza di fede. Il mio problema è la troppa fede.

Gli occhi di Dobbick si strinsero. — Eri un bambino quando sei arrivato qui. Non ti sei ancora liberato dalle sciocche superstizioni?

— Vi è della magia nel mondo. Le donne che amano le Dolci Sorelle non negano Dio. Perché gli Uomini di Dio devono negare le Sorelle e il Cervo?

— Il mondo è più complicato di quanto tu creda.

— No, diacono Dobbick. Il mondo è più complicato di quanto voi crediate. Non voglio vivere in un terzo dell’universo, quando posso percorrerlo tutto.

— Dunque lascerai le benedizioni e le orazioni e i salmi per prostrarti davanti alle fate con libagioni?

Orem rise. Non poteva fare a meno di ridere quando Dobbick faceva le rime, e Dobbick lo sapeva.

— Suvvia, Orem. Non devi decidere oggi. Fino a quando non ti verrà a noia, c’è abbondanza di codici da copiare. Quando uno riceve il certificato di maestro chierico, di solito prende i voti o se ne va, ma possiamo anche accettarti come fratello laico… è una condizione onorevole, che ti segnala come nostro uguale in sapienza, se non in santità. Ma non farò più finta di essere tuo insegnante. Non leggo i tuoi manoscritti per correggerli… li leggo per imparare quali nuovi e brillanti significati hanno acquistato.

Orem, allora, disse la cruda verità, anche se sapeva che avrebbe urtato Dobbick. — Come potete leggere il mio lavoro e trovarci delle verità, quando io mi limito a giocare? Se i miei giochi, i miei indovinelli, i miei rompicapi vi sembrano la verità, che altro posso pensare se non che tutte le altre verità non sono che giochi, indovinelli, rompicapi?

Ancora una volta Dobbick rimase in silenzio. Alla fine disse: — Forse sei troppo giovane per sapere che i giochi e gli indovinelli sono la sola verità che abbiamo, e per questo sono preziosi per noi.

Vergognandosi di aver offeso il suo maestro, Orem andò alla finestra e guardò fuori. C’era dell’agitazione e della fretta nella gente che passava in strada, e non era neppure giorno di mercato. Poi il suono delle trombe, che si avvicinava. Stava giungendo l’esercito, dunque? E Re Palicrovol avrebbe cavalcato alla sua testa? Era l’unica cosa che interessasse veramente Orem, in quei giorni; la sola menzione del nome di Palicrovol risvegliava qualcosa nel ragazzo. Che sorta di uomo è il Re? si chiedeva Orem. Che sorta di uomo era colui che parlava, e gli eserciti gli obbedivano, che chiamava, e mille preti pregavano per lui?

— Sembri attratto dalla finestra.

— Gli stendardi hanno attirato il mio sguardo. Potete chiudere la finestra.

— Il che significa che la vuoi aperta. Credi che non ti conosca?

— No.

— Non sei diverso dagli altri ragazzi. Sogni di Palicrovol e della sua malvagia e inutile speranza di riconquistare una città che aveva rubato fin dall’inizio.

— È un Uomo di Dio, no? — replicò Orem.

— Solo di nome. Tiene qualche prete, per le apparenze. Ma è con i maghi che si guarda dalla Regina, lo sciocco.

Fuori dalla finestra, la porta nella palizzata della città si stava aprendo… sì, arrivava il Re, perché fuori dalla porta c’erano soldati a cavallo e soldati a piedi, splendenti nelle corazze e negli elmi d’acciaio. Era uno spettacolo impressionante, ma Orem non era affascinato dai soldati. Era la magia che attirava i suoi sogni. Non la magia delle Dolci Sorelle, ma la magia della testa dalle cento punte, la Corona del Cervo. Era Re Palicrovol, i cui maghi combattevano ogni giorno contro la Regina. E mentre Orem pensava al Re, Palicrovol passava per la porta di Banningside su un’alta sella, su un alto destriero grigio, e sulla sua testa brillava la Corona del Cervo di Burland. Era Re dalla testa ai piedi. Non girava per nulla la testa, ma guardava dritto davanti a sé mentre la folla lo acclamava e gli gettava rose.

Giunse più vicino, e Orem ebbe un brivido, mentre il sole si rifletteva splendente dagli occhi di Re Palicrovol. Al posto degli occhi c’erano due sfere d’oro, che brillavano alla luce del sole, tali che il Re non poteva vedere nulla. — La Regina guarda attraverso gli occhi di Palicrovol, oggi — disse Orem. — Perché lo fa, dal momento che possiede la Vista?

Dobbick gli rispose in tono sorprendentemente irato. — Se avessi appreso qualcosa su Dio, sapresti che la Vista della Regina non può penetrare un Tempio o una Casa di Dio, o il settimo cerchio dei sette cerchi. E perché credi che re Palicrovol non si circondi di preti per tenere lontani gli occhi della Regina? Perché anche lui è nero nel cuore. Perché è il tipo di uomo disposto a violentare una bambina sui gradini del Salone delle Facce, per rubare la corona che era l’unico dono che lei potesse dare. Dio non ha nessuna parte di lui, Orem. E Dio non avrà alcuna parte di te, se ti volgi alla magia come…

Ma questa volta fu Dobbick a interrompersi e a guardare dalla finestra. Poiché la folla, fuori, era caduta nel silenzio, e quando Orem guardò nella direzione in cui guardava il diacono, vide che Re Palicrovol si era arrestato, si era tolto la Corona del Cervo dalla testa e la teneva davanti a sé.

Il Re girò gli occhi ciechi da una parte e dall’altra, come se vedesse e cercasse qualcosa. — No! — gridò una voce strana e lamentosa, e ci volle un momento a Orem per rendersi conto che era il Re a parlare con quella voce. — Oh, Inwit, non qui, non attraverso i miei occhi. — Poi il Re alzò la testa e i suoi occhi d’oro parvero fissarsi sulla faccia di Orem, e il Re indicò il cuore di Orem e gridò: — Mio! Mio! Mio!

Dei soldati uscirono dai ranghi, e d’improvviso Orem si sentì tirare indietro. Era Dobbick, e la sua voce era piena di paura. — Oh Dio, oh Dio, oh sette volte sette i giorni bui che vengono dall’essere incauti. Oh Dio, Orem, ti vuole, vuole averti…

Orem era confuso, e non fece resistenza mentre Dobbick lo portava fuori dalla stanza. L’obbedienza era da tanto tempo il suo modo di vita che non aveva alcuna strategia per liberarsi dalla stretta del diacono mentre lo trascinava su e giù per scale, attraverso porte solitamente chiuse, e infine in una botola che conduceva in un cunicolo.

— La Casa di Dio è antica — disse Dobbick — è stata costruita prima che Dio avesse la Sua vittoria su tutti gli stranieri e tutte le potenze. Questo cunicolo sbuca vicino al fiume, fuori dalla palizzata. Vai a casa. Vai alla fattoria di tuo padre e di’ addio alla tua famiglia, poi vattene. Lontano, verso il mare, verso le montagne, dovunque il Re non possa trovarti.

— Ma che significa?

— Significa che il Re vuole usarti per la sua battaglia. E di questo puoi essere sicuro: sarà a tuo danno. Un uomo come Palicrovol non ha vissuto tre neri secoli pagando lui lo scotto. Nel gioco del potere ci sono solo due giocatori, e tutti gli altri sono pedine. Oh, Orem, se solo fossi entrato nei sette cerchi, solo un passo, non avresti nulla da temere da lui. Sa Dio quanto mi dispiace lasciarti andar via.

— Cosa mi sta succedendo? — chiese Orem, spaventato tanto dall’inaspettata espressione d’amore e dispiacere di Dobbick, quanto dall’episodio accaduto con il Re.

— Non lo so. Qualsiasi cosa sia, tu non la vuoi.

Ma in quell’istante Orem seppe che la voleva. In quell’istante seppe che la sicurezza della Casa di Dio era ciò che più odiava. Nella Casa di Dio non si sarebbe mai fatto un nome, o trovato un posto, o guadagnato una poesia. Qui, su quella porta segreta, era sull’orlo di tutte e tre le cose: poteva sentirlo nella paura della sua pancia e nella chiarezza della sua visione.

— Hai quindici anni, sei solo un bambino — disse Dobbick. Ma Orem sapeva che quella era l’età in cui i soldati entravano nell’esercito, l’età in cui un uomo poteva prendere moglie. Solo nella Casa di Dio a quindici anni uno era ancora giovane. — Ah sì — disse Dobbick, tracciando i sette cerchi sulla faccia di Orem, con dito affettuoso. — Non mi ero sbagliato: non sei uno strumento nella guerra di Palicrovol, Orem. Sei uno strumento di Dio.