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Orem scosse la testa, vergognandosi di avere tradito fino a quel punto il diacono Dobbick nel cuore. — Voglio trovarmi un lavoro, e farmi un nome. E guadagnarmi la mia poesia, se potrò.

Il droghiere si rilassò. — Ci sono poesie da guadagnarsi, a Inwit. Ho incontrato un uomo che aveva una poesia lunga un braccio… dico sul serio: se l’era fatta tatuare sulla pelle, ed era una bella poesia. — Il droghiere divenne d’improvviso timido. — Io ho una poesia, che mi hanno dato tre cantori a Bans Alta. Non è una poesia di Inwit, ma è mia.

Di colpo, l’atmosfera della serata si fece solenne. Orem si inginocchiò sui duri tronchi della zattera e tese le mani aperte. — Mi dici la tua poesia?

— Non sono molto bravo a cantare — disse il droghiere. Ma mise la sinistra fra le mani di Orem e la destra sulla testa di Orem, e cantò:

“Glasin il Droghiere lungo il fiume fa il suo mestiere. Gira a nord, verso Corth, ed è cibo per il Sacro Levriero.”

— Tu — disse Orem con reverenza.

Glasin il droghiere annuì timidamente. — Qui sulla mia spalla — disse, scoprendosela per far vedere le cicatrici a Orem. — Sono stato fortunato. Era il primo giorno del Levriero, e ha preso poco prima di tornare nel Canile.

— Non hai avuto paura?

— Mi sono pisciato addosso — disse Glasin ridacchiando. Anche Orem rise un po’. Ma pensò a cosa doveva essere stato: il grande Levriero nero che usciva dal bosco senza un rumore, e ti fissava con gli occhi che ti immobilizzavano. Poi inginocchiarsi e pregare mentre il Levriero si avvicinava e ti azzannava e prendeva tutta la carne che voleva, e tu non avevi la forza di scappare o il fiato per gridare.

— Io sono un Uomo di Dio — disse Glasin il Droghiere. — Non ho gridato, e il dolore mi è stato risparmiato. Mi hanno portato alla città, e i poeti mi hanno dato la mia canzone. Il miglior raccolto che si sia mai visto, quell’anno.

— Ho sentito parlare di quell’anno. Dicono che il Levriero avesse preso un angelo.

Glasin rise e si batté sulla coscia. — Un angelo! Questa è bella!

Tutte le volte che Glasin rideva il suo fiato portava al naso di Orem la puzza dei suoi denti guasti, e Orem avrebbe voluto voltarsi, ma non voleva mancare di rispetto. E adesso ne valeva la pena, per Glasin… solo un morso del Santo Levriero, e un buon raccolto, per giunta. — Sei stato il Prezzo di Corth — disse Orem, scuotendo la testa.

Glasin diede un pugno sulla spalla di Orem. — Un angelo. Ma no!

— Oh, sì — disse Orem, e Glasin cantò di nuovo la sua canzone. La cantò molte volte lungo il viaggio, durante le due settimane in cui il Banning si trasformò nel Burring, e passarono accanto ai grandi castelli di Runs, Gronskeep, Sacra Curva, Sturks e Pry. Più si inoltravano a sud, più il fiume si riempiva di altre chiatte e barche, e più l’acqua diventava sporca per gli scarichi delle città lungo la strada. Ma gli odori, i rumori e le discussioni con gli altri barcaioli non bastavano a spegnere l’entusiasmo che veniva dal sapere che a ogni ora che passava Inwit era più vicina. L’unica cosa che guastava le giornate di Orem era Glasin stesso. Erano molte le volte, in effetti, in cui Orem avrebbe ardentemente voluto che lui e Glasin non fossero diventati amici, e gli mancava terribilmente l’antico silenzio. Glasin aveva avuto dopo tutto una vita molto piccola, che poteva stare tutta nei racconti di poche sere, e Orem dovette farsi forza per non dire: Tutta la tua canzone ce l’hai perché per caso il Sacro Levriero ti ha trovato, ed eri pulito. Essere pulito è soltanto una lista delle cose che non hai mai fatto. Una vita vuota, pensò Orem. Io avrò una poesia cosi bella e lunga che non dovrò mai cantarla io stesso, ma gli altri me la canteranno, perché conosceranno le parole a memoria.

Una mattina Glasin cominciò a parlare fin dal momento in cui spinse con la pertica la zattera nella corrente. — Scommetto che pensi che non so tenere la bocca chiusa — disse — ma guarda come so mantenere un segreto: ti ho detto forse che oggi sarebbe stato il giorno di Inwit, e dell’arrivo al Porto dei Contadini? Se te l’avessi detto, questa notte non avresti chiuso occhio, e invece oggi hai bisogno di essere riposato. Guarda là: quella è la foresta di Ainn, e quella collina più avanti è Capo Ainn, e il torrente Ainn è subito dopo. — Non solo sulla zattera di Glasin c’era eccitazione. — La Baia di Clake! — gridò una donna su una barca vicina. — L’Isola delle Navi! — gridò un uomo.

E poi superarono del tutto l’ansa e lì, sulla riva sinistra del fiume, c’era Inwit: un alto muro di pietra pieno di bandiere, più sotto i moli del Porto dei Contadini, e dietro le grandi mura della Città del Re (no, la Città della Regina, ora) e più alto di tutto e desolato, il Castello Vecchio. Glasin gli indicò tutti i posti, e quasi si dimenticò di girare la zattera, riuscendo appena a infilarsi in uno degli ultimi attracchi al Porto dei Contadini.

11

LA PORTA DEL PISCIO

Come il Piccolo Re entrò per la prima volta nella città attraverso la Porta del Piscio, con un visto dei poveri, senza che nessuno sapesse chi era.
Fra i ladri

Il portuale più vicino legò la loro cima a un palo sul molo, e Orem era sul punto di saltare a terra, quando Glasin gli lanciò un’occhiataccia e gli ordinò di restare. Aspettarono, e ben presto parecchi uomini con sgargianti brache del sud si avvicinarono per guardare i due e la zattera.

— Non sembra molto robusta quella zattera — disse uno.

Glasin si voltò a guardare un altro uomo. — Tutta quercia — disse con aria di sfida.

— Tenuta assieme con sputo e budella di gatto — ribatté l’uomo.

— Buona solo per legna da ardere — disse un terzo. — E ci vogliono anche tre giorni per farla asciugare. In cambio ti do un carro.

— Un carro e venti denari — disse un altro.

Glasin sbuffò e voltò la schiena.

— Un carro e un asino — disse l’uomo che aveva parlato per primo.

— Se ci aggiungi quattro scudi d’argento, ti do la zattera e la tenda.

— Scudi! E cosa ci farei io con una tenda?

Glasin alzò le spalle.

Un altro uomo annuì. Il terzo voltò le spalle, scuotendo la testa. Il primo, il quale aveva un occhio di falco che rimaneva sempre aperto a fissare, anche quando l’altro era chiuso, alzò le mani. — Dio manda dal fiume ladri travestiti da droghieri — disse. — Due scudi, un asino e un carro, ma per l’amor di Dio, tieniti la tenda.

Glasin guardò l’altro mercante, ma quello non alzò l’offerta. L’affare fu concluso.

O quasi. Occhio-di-falco guardò Orem. — Il ragazzo è in vendita? — chiese.

In vendita? Orem rimase costernato: come potevano prenderlo per uno schiavo? Non aveva anelli sulla faccia, non aveva marchi sulla pelle! Ma l’uomo aveva chiesto lo stesso, e il droghiere non aveva detto di no, ma stava pensando.

— Sono un uomo libero — disse Orem con forza, ma Occhio-di-falco non diede segno di averlo sentito, continuò a fissare Glasin. Alla fine il droghiere scosse la testa. — Io sono un Uomo di Dio, e questo ragazzo è libero.

Il compratore non disse altro, gettò solo due monete luccicanti a Glasin, che le afferrò al volo perché non si infilassero fra le fessure dei tronchi perdendosi nel fiume. Il compratore fece un segno e quattro uomini arrivarono. Uno conduceva un asino dall’aria triste e un carretto, mentre gli altri scaricarono rapidamente la zattera, mettendo sul carro tutto quello che ci stava e accatastando il resto sul molo. Quando tutto fu finito, il portuale annuì, piantò un chiodo rosso nel palo e se ne andò.