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Il pugnale era rimasto infilato nell’occhio della vittima, dritto in aria. D’impulso, Orem si avvicinò al cadavere e allungò una mano per prenderlo; nello stesso istante, una mano lunga e sottile si allungò anch’essa verso il cadavere. Per un momento, Orem pensò che qualcun altro volesse impadronirsi dell’arma. Ma non era così: era una vecchia, e teneva in mano una tazza con cui raccoglieva il sangue che ancora colava. Una strega, dunque, che poteva servirsi anche di sangue non guadagnato. Orem si chiese che razza di lurida magia poteva essere praticata con sangue di un cadavere trovato nella strada, mentre faceva un passo indietro e la lasciava fare.

Lei finì. Alzò gli occhi a guardarlo e gli sorrise. Poi si chinò e baciò il pugnale. Per un momento, Orem pensò di non prenderlo più: chissà cosa significava quel bacio. Ma poi ci ripensò. Anche un ragazzo istruito da prete poteva usare un pugnale, se ne avesse avuto la necessità, e in quel luogo non aveva intenzione di sottomettersi passivamente a quello che potevano decidere per lui i cadaveri viventi. Così fece un passo avanti e tirò fuori il coltello, facendo uscire dall’occhio un ultimo fiotto di sangue. In mancanza di un mezzo migliore, pulì il pugnale sugli abiti del morto. Poi lo mise nella bisaccia.

La donna parlò, con una voce che sibilava come l’ultimo respiro di una scrofa macellata. — Ci sono tre cose in natura che non conoscono moderazione, nel bene e nel peccato. — Inclinò di lato la testa e aspettò.

Orem ebbe un brivido. Conosceva la litania, e sapeva bene che non poteva rimanere incompleta. Se lei si fermava, toccava a lui continuare. — Quando sono governate dalla virtù — disse a bassa voce — sono eccellentissime in virtù.

— La lingua — disse la donna. — E un prete.

— Ma quando sono corrotte, non vi è fondo che possa fermare la loro caduta infernale. — È sufficiente, pensò Orem, o devo dire il terzo nome?

— E una donna. — La vecchia sorrise e annuì con aria di intesa, come se condividessero qualcosa di bello; poi prese la tazza di sangue che si stava coagulando, e se ne andò.

Orem sentiva il pugnale nella bisaccia come un piccolo fuoco, che gli bruciava la pelle anche se non poteva toccarlo direttamente. Cosa aveva voluto significare facendogli cantare l’Ambivalenza? Avvertirlo di frenare i suoi desideri malvagi? Ma io non ho alcun desiderio veramente innominabile, pensò, e poi non sono più un prete. Perché dovrei preoccuparmi degli avvertimenti di una donna già tanto corrotta da usare sangue trovato? Tuttavia, non poteva non sentire un brivido. E ancora il pugnale gli bruciava la schiena. Ancora il pugnale gli gelava la schiena, finche non ebbe camminato un bel po’, ed ebbe pensato abbastanza ad altre cose, ed ebbe cantato mentalmente abbastanza canzoni perché la litania dei tre sconfinati amici e nemici di Dio svanisse dalla sua mente, e dimenticasse anche il pugnale che portava.

Come Orem acquistò il nome di fianchi-magri

Finalmente, la Porta del Piscio. Da lontano, sembrava uguale alla Porta dei Maiali e al Buco; da vicino, aveva un carattere tutto suo. Quel luogo non apparteneva ai suoi abitanti permanenti. Non era silenzioso e disperato. La fila era lunga, e andava avanti a forza di spintoni, e solo la presenza di molte guardie impediva alle discussioni di degenerare in scontri. Quanto alle guardie, erano arcigne e molto occupate; sei erano a cavallo, e andavano su e giù lungo la fila. Non c’erano morti fra quelli che aspettavano di entrare. Potevano essere arrabbiati o stupidi o spaventati o sottomessi o allegri, ma non erano morti. Orem si riconobbe in molte facce della fila, vergognandosi per l’evidente ingenuità degli altri della sua età, e insieme sollevato perché era possibile essere lì con qualche speranza. Gente di campagna; gente che sognava di trovare qualche tesoro in città. Orem prese il suo posto nella fila e si sentì più piccolo, ma anche più al sicuro che nelle strade della Città dei Mendicanti.

Aveva appena preso posto, che la fila alle sue spalle si era già allungata di un centinaio di persone. Le guardie alla Porta dei Maiali facevano passare tre o quattro droghieri insieme, ma qui non avevano tanta fretta. Le grandi porte non erano spalancate: solo una porticina serviva a far passare i poveri. E tuttavia la gente manifestava gli stessi segni di fretta dei droghieri e dei macellai: come se pensassero che passando davanti a qualcuno, potessero avere per sé il lavoro che quello avrebbe potuto avere. Dentro la Porta c’era la risposta a tutto, se solo si riusciva a passare e a fare le domande per primi. Un lavoro; un visto da lavoratore; il diritto di rimanere in città; quella era la porta del paradiso, e gli angeli nelle loro corazze di bronzo tenevano le catene della salvezza. Orem non poteva fare a meno di veder il mondo come lo vedevano i preti; e non poteva fare a meno di sentirsi divertito all’idea che quelle guardie dalle facce sporche fossero angeli. Sono questi il ponte d’argento, e la porta d’oro, e le catene di acciaio? Provate a parlarne al catechismo, diacono Dobbick.

— È la prima volta?

Era l’uomo davanti a lui, che aveva tre sottili cicatrici sulla guancia, due vecchie e bianche, raltra appena un po’ rosea. Non aveva un’aria amichevole, ma almeno gli aveva parlato.

— Sì — disse Orem.

— Be’, ti do un consiglio: non accettare alcun lavoro dagli uomini che ci sono appena dopo la porta.

— Io voglio un lavoro.

L’uomo storse la bocca. — Promettono di prenderti per un anno, ma dopo tre giorni ti consegnano alle guardie, senza visto. E non ti pagano. Così fai tre giorni di lavoro gratis, e sei fuori di nuovo. I veri lavori sono più in centro.

— Dove?

— Se lo sapessi, sarei ancora qui a fare la fila?

E finalmente, con il sole che illuminava coi suoi raggi rossi e caldi la piccola porta, arrivarono davanti alle guardie. L’uomo che aveva parlato con Orem rispose scontrosamente alle domande: Nome, cittadinanza, mestiere. Rainer, falegname in cerca di lavoro, cittadino di Cresting. La guardia gli prese il mento e gli fece girare la testa, per vedere le cicatrici sulla guancia. Fu quella rosa che fece arrabbiare la guardia.

— È ancora rossa, Rainer. Accidenti, sei cieco?

— Non ho lo specchio — rispose Rainer. — La mia donna mi ha detto che era bianca.

— Lo immaginavo: solo una donna cieca potrebbe volerti. Vattene e ritorna quando il tempo è passato.

E adesso Orem era il primo della fila, vagamente consapevole che Rainer il Falegname era ancora lì.

— Nome?

— Orem.

La guardia aspettò, poi chiese impaziente: — Tutto il nome!

Orem ricordò le risate al Buco per il suo cognome. Rainer aveva usato come cognome quello della sua professione, e così aveva fatto Glasin. Bene, Orem non aveva lavoro. Perché avevano riso? Forse non usavano il nome del padre, lì.

— Orem e basta.

La guardia lo guardò divertita. — Vieni da un villaggio molto piccolo, eh? — Gli guardò il corpo, e gli parve ancora più divertito. Orem maledisse la sua magrezza e la bassa statura. — Allora ti chiameremo Orem Fianchi-Magri, eh? Fianchi-Magri! — lo ripeté ad alta voce, e le altre guardie risero. — Mestiere?