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In cima alle scale, lui fece per voltarsi lungo l’ampio corridoio coperto da un tappeto, ma lei lo tirò per la camicia.

— Questo costa uno scudo d’argento, prezzo fisso imposto dalla casa, io non ho scelta. — Salirono un’altra rampa. Questa volta il tappeto terminava al primo giro della scala, non appena i gradini diventavano invisibili dal corridoio sottostante. — È come cento case in una — spiegò lei — a seconda di quello che paghi. — La rampa successiva scricchiolava. E la quarta oscillava sotto i loro piedi. — Sono le stanze più economiche, scusa le pulci, ma quattro denari sono proprio pochini.

Presero per un corridoio buio, illuminato solo da una torcia a ciascuna estremità. Orem lanciò un’occhiata in tutte le stanze che erano aperte. Solo un’occhiata, finché ciò che vide non lo fece fermare.

Sedevano una vicino all’altra. Due donne, immobili come alberi. Erano vestite come tutte le altre puttane, e avevano corpi forse più belli delle altre. Ma le loro facce: qual era quella più terribile? Quella con un solo occhio, la bocca che si apriva da un fianco, e il naso così piegato che la narice guardava più in alto che in basso? O quella senza nessuna faccia? Né sopracciglia, né occhi, né naso né labbra, solo una circonferenza di capelli e uno spazio vuoto di carne interrotto da una sottile fessura che non poteva definirsi una bocca, perché non c’erano labbra, e rimaneva aperta in una flaccida O, da cui un rivoletto di saliva colava fra i seni.

— Sono gemelle siamesi — sussurrò la puttana di Orem, trascinandolo via. Anche se non sopportava l’idea di guardare le donne, Orem rimase fermo. Lei tirò più forte, e lui si staccò dalla porta. — Gemelle siamesi. Nate in una casa nobile, dicono, e hanno avuto i migliori medici e i migliori maghi, per non parlare dei preti che le hanno tanto benedette che per poco non gli spuntavano le ali. Le hanno separate. Gemelle siamesi, unite nella faccia, solo che una guardava un po’ di fianco, perciò aveva un occhio, mezza bocca e mezzo naso, e l’altra niente, a parte un piccolo buco che le faceva arrivare l’aria dalla bocca dell’altra. Hanno allargato il buco. Le benedizioni hanno funzionato, perché sono sopravvissute. E gli incantesimi hanno funzionato anche quelli, perché la pelle è cresciuta sulle ferite. Ma cosa c’era per loro? E qual è la più disgraziata, secondo te? Quella che non può vedere? O quella che conosce gli specchi? Le chiamano le Dolci Sorelle. Una battuta.

Orem non aveva mai conosciuto una donna che potesse scherzare sulle Dolci Sorelle.

La puttana aprì una porticina, e si chinò per entrare. Anche Orem si chinò, ma batté lo stesso la testa. — C’è il soffitto basso — disse lei.

La donna si tolse la camicia dalle spalle; i seni le salirono, poi ballonzolarono giù quando abbassò le braccia. Orem vide, ma tutto quello a cui riusciva a pensare era la faccia floscia con il buco colante. La puttana lo svestì, ma tutto quello a cui riusciva a pensare era il singolo occhio, il naso storto, la mezza bocca. La puttana lo accarezzò e lo baciò, ma non servì a niente; si sdraiò sul sottile tappeto che copriva il pavimento, impotente, freddo e tremante. Qualsiasi cosa avesse voluto mentre saliva le scale, la puttana non ebbe nulla di lui, perché aveva visto le gemelle siamesi che un tempo erano state unite per la faccia, e non poteva pensare a nient’altro.

— Quindici anni? — disse la puttana con disprezzo. — Potrebbero essere anche cinque. Cosa pensavi di infilarci qui, il ginocchio? Sa Dio se non è magro abbastanza da starci. Hai le palle di un topo e l’uccello di una pulce, ecco cos’hai, perciò non dire che è colpa mia, sono ancora carina, non ti ho mica sentito dire che ero brutta, giù in strada, vero? — Si vestì in fretta, poi si interruppe e prese quattro monete da dove Orem le aveva lasciate, sul pavimento. — Paghi per il mio tempo… non è colpa mia se non lo usi. E sei fortunato che non prendo anche l’altra, per l’offesa. — Sputò sul suo perizoma, che giaceva vuoto e patetico sul pavimento, poi lo calpestò. — Questo e una pisciata è tutto quello che troverai nelle tue mutande, la mattina. Trovati da solo la strada per uscire, uccello-moscio. Quando avrai dieci anni ritorna e vedremo cosa si potrà fare. — E se ne andò.

Unite per la faccia

Rosso di vergogna, Orem cercò di ripulire le mutande dallo sputo con la camicia. È così che sarebbe cominciata la sua poesia?

Si vestì e uscì nel piccolo corridoio buio. Immediatamente vide il rettangolo di parete illuminato dalla porta dove i mostri detti Dolci Sorelle attendevano il suo passaggio. Era contemporaneamente attirato e terrorizzato da loro. Avanzò cautamente, con le ginocchia che gli tremavano, inciampò, si appoggiò a una parete. Più si sforzava di essere silenzioso, più faceva rumore.

— Chi è? — disse una voce sottile, acuta e tremante.

Orem rimase in silenzio, inginocchiandosi sul pavimento del corridoio buio. Non uscite a cercarmi. Restate dove siete, dormite, morite. Lasciatemi passare.

— Rispondi. Se non rispondi mia sorella si arrabbia.

L’ultima cosa che Orem voleva era fare arrabbiare una sorella. Nel nome di Dio, pregò silenziosamente, non arrabbiarti con me. — Sono caduto — disse.

— La voce di un bambino, sì? La voce di un bambino goffo, sì? La voce di un bambino che ha pagato quattro denari e non ha avuto in cambio niente. Ma pensa, pensa: non ti ha neppure preso nulla. Per la modica somma di quattro denari, sei ancora come un lago non prosciugato da alcun torrente. — Si sentì una risatina, che fece arrabbiare Orem. La sua puttana aveva gridato troppo: conoscevano il suo fallimento.

— Entra — disse la voce.

— No.

— Devo venire a prenderti? — Orem si alzò in piedi, sentendosi molto debole, e avanzò; giunto alla porta si girò. Il singolo occhio di una delle facce lo guardava, ma se distoglieva gli occhi, l’unico punto dove guardare era l’altra, la pelle vuota, il rivoletto ininterrotto di saliva. Si sforzò di guardare la stanza. C’era una sola sedia, oltre a quelle in cui sedevano le due, vecchia e cadente. C’era un piccolo telaio, con una pezza di stoffa mezzo finita, piena di buchi e ammuffita, e il telaio era coperto di ragnatele e di polvere. Poi c’era il tappeto, proprio come quello su cui si era sdraiato impotente, nella stanza vicina: solo che questo brillava nella luce, e Orem si rese conto che era stato intrecciato con fili d’oro.

— Siediti.

Non provò neppure la sedia, e sedette sul pavimento.

— Quattro denari. Ne valeva la pena, per vedere due tette cadenti? — C’era un sorriso sulla sua faccia deforme? — È una vecchia megera in calore… devi essere appena arrivato in città, per non saperlo. — La donna con un solo occhio guardò la sua placida sorella. — Quanti anni credi che abbia?

Con orrore di Orem, la bocca senza labbra cercò di rispondere. Era un lamento, un lamento modulato, come una canzone di dolore, e la sorella con un solo occhio annuì. — Sì, quindici anni, ma è magro di corpo. Mia sorella dice che la tua volontà è di pietra… Puoi andare in frantumi sotto il martello, ma molto tempo dopo che il martello sarà stato ridotto in polvere dalla ruggine, tu resterai. Non è bello? Come ti chiami?

— Orem. — Non aveva ancora imparato a mentire.

— Orem, rivuoi i tuoi quattro denari?

Non gli era venuto in mente che fosse possibile. — Sì.

— Allora devi intrattenerci.

— Come?

— Raccontaci la storia delle due sorelle siamesi e unite per la faccia che grazie alla magia e alle preghiere e alla chirurgia, vennero separate: una con un solo occhio e l’altra senza faccia, tranne un buco per la bocca che le lascia scendere un rivoletto di saliva fra i seni e fino alla pancia.