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Orem si avvicinò a Pulce e prese il bastone. Al cambiamento di pressione il Querulo alzò un alto lamento, ma Orem spinse con forza. Pulce rise nervosamente. — Bravo, va bene così, tienilo fermo. Dicono che sia come una donna: musica e morte quando morde. — Orem sapeva che Pulce parlava solo per sentire la propria voce. Il serpente cominciò ad agitarsi con tutto il corpo, dimenando la coda. Pulce non ci badò per niente. Allungò una mano e con due dita afferrò il Querulo appena dietro la testa, e gliela tirò indietro adagio, fino a schiacciarla contro il bastone. Il Querulo emise un suono soffocato, ma Pulce canticchiava. A questo punto osò prenderlo per la gola, strettamente. — Non ancora — sussurrò. Il serpente si lamentò. Pulce passò la sinistra lungo il corpo del serpente, finché non ebbe afferrato anche la punta della coda. — Lascia andare — disse.

Orem aspettò un altro secondo, impaurito.

— Lascialo andare, vuoi strangolarlo?

Lo lasciò andare. Immediatamente il serpente si contorse con spasmi e convulsioni terribili; Pulce tenne duro. Il serpente gridò, si lamentò, come se gli fosse morto un figlio. Pulce ridacchiò sollevato. — Bisogna stare attenti, sai. Se non tieni la coda, te la sbatte in un occhio, e tu lo lasci andare e lui ti morde. Vieni. La fossa è un po’ più avanti.

Orem aveva sperato che catturare un serpente fosse una prova sufficiente di coraggio, per un giorno. Sarebbe stato ben contento di lasciare lì Pulce, ma non avrebbe saputo trovare la strada per uscire dalla Palude da solo. La fossa dei serpenti non era profonda: non potevano esserci fosse profonde nella Palude, perché l’acqua si sarebbe infiltrata in ogni depressione. Erano lì solo da pochi momenti, quando cominciarono ad arrivare altri ragazzi, ciascuno con un Querulo per il collo.

— Pulce! — molti lo salutarono. Pulce allungò verso di loro la testa del suo Querulo, scherzosamente. Alcuni squadrarono Orem.

— Magro — disse Pulce presentandolo. — È un piscione, ma è a posto.

A uno a uno i ragazzi andarono sul bordo della fossa e gettarono i serpenti. Ogni Querulo corse immediatamente verso l’acqua e bevve. Poi cercarono di strisciare fuori, verso i ragazzi. Ogni volta che arrivavano vicino al bordo venivano spinti indietro da un bastone biforcuto. Un rumore di funerale riempì lo spiazzo, mentre i Queruli si lamentavano sibilando.

— Tu, Magro — disse un ragazzo. — Non hai bastone, occupati dei topi.

Topi? Pulce gli spiegò subito: — Alla tua sinistra, nel castello.

Il “castello” era un muretto di pietre, con un tetto di legno. Dentro, si sentiva uno squittio e uno scalpiccio di topi. Orem non era entusiasta all’idea di infilarci dentro una mano per prenderne uno. Ancora una volta Pulce lo consigliò. — Prendi la bisaccia, tienila pronta e togli una pietra dal muro. — La prima volta Orem non fu abbastanza svelto e il topo scappò; la seconda ne prese due, poi riuscì a rimettere a posto la pietra con il piede, per non fare uscire gli altri. I topi si combattevano e si agitavano nella bisaccia, tanto che era difficile tenerla.

— Ne hai presi due?

Orem annuì al ragazzo che aveva parlato, l’unico che sembrava dell’età di Orem.

— Immagino che non vorrai prenderne uno solo.

Orem alzò le spalle. Non voleva passare per fifone. — Come vuoi tu.

— Uno, allora. E buttalo proprio in mezzo. — Il ragazzo non lo guardò neppure: aveva il suo da fare a ributtare i Queruli nella pozza d’acqua in mezzo alla fossa.

Orem prese il collo della bisaccia con una mano e usò l’altra per stringere la bisaccia fra un topo e l’altro. Poi bloccò quello sul fondo tenendo la bisaccia fra le ginocchia, e strinse l’altro finché non poté più muoversi. Con attenzione, manipolò il topo girandolo con la schiena verso l’apertura. Magari mi piscerà sulla mano, ma meglio questo che i suoi denti.

Aprì adagio la bisaccia e tastò il corpo del topo, fino a trovare una delle zampe posteriori. Poi lasciò l’imboccatura della bisaccia e insieme tirò fuori il topo, e con un solo movimento lo gettò ai serpenti.

Se aveva sperato in un mormorio di ammirazione, rimase deluso. Il topo finì quasi in mezzo alla fossa, e immediatamente i ragazzi fissarono l’attenzione sui serpenti. I Queruli si erano zittiti di colpo, e il topo era sospeso fra le bocche di una dozzina di essi. Ebbe appena il tempo di squittire, tanto veleno gli entrò in corpo; il sangue gli schizzò dalla bocca, vomitato dalle sue viscere più profonde, e poi fu solo pelliccia, scabbia e carne. I serpenti tirarono, e il topo si spezzò. Alcuni dei serpenti rimasero senza niente, altri con ciuffi di pelo, e infine rimasero solo i due attaccati al topo, entrambi intenti a ingoiare furiosamente, finché non si trovarono zanna a zanna, le mascelle spalancate per il topo che stavano ingoiando.

I due ragazzi i cui serpenti erano così uniti, si scambiarono grida di gioia. Avevano vinto la prima parte della gara. Tuttavia era la fine dei rispettivi serpenti, perché adesso gli altri cominciarono a ululare e ad azzannarli. I Queruli non si fanno facilmente avvelenare dal loro stesso veleno, ma dopo una dozzina di morsi i due cominciarono a star male, e con un centinaio di morsi morirono. Gli altri serpenti cominciarono a mordere e a mangiare tutto quello che capitava a tiro. Alcuni morirono con il corpo di un altro metà ingoiato; alcuni morirono senza nulla; e alla fine, quando tutto fu immobile, i ragazzi vennero vicino per fare il conto. Quali avevano vinto e quali perso?

Orem cercò di decifrare. Quelli i cui serpenti erano rimasti da soli, senza aver mangiato né essere stati mangiati, apparentemente erano fuori gioco: se ne andarono grugnendo. Gli altri calcolarono quanto un serpente era stato mangiato prima di morire, e i ragazzi si mettevano in coppia secondo gli accoppiamenti dei serpenti, e mentre uno trionfava, l’altro faceva una faccia scura. Per la prima volta a Orem venne in mente che nessuno di quei ragazzi aveva denaro. Qual era la posta, dunque? Che prezzo dovevano pagare quelli che avevano perso?

— Il tuo è stato mangiato di più — disse il ragazzo più vecchio a uno più giovane di lui.

— Balle — disse l’altro. — Era un serpente corto.

— Ho detto che ho vinto — disse il ragazzo più grande.

— Ho detto balle. Il tuo è stato più mangiato.

Orem guardò i serpenti e pensò che il più giovane poteva anche avere ragione. Pensò anche che a meno che la posta da pagare non fosse qualcosa di terribile, non valeva la pena di litigare per una cosa simile, perché il ragazzo più grande aveva un’aria di allegria che metteva paura…

— Ho detto di no.

Il ragazzo più giovane sembrava spaventato, ma non cedette. — Non sono venuto per farmi fregare da un bastardo come te — disse ad alta voce. Gli altri ragazzi cominciarono a indietreggiare.

— Neanch’io — disse il ragazzo più vecchio. — Penso di no. Ho detto di no. Anche tu l’hai detto.

— Ho detto di no!

Un colpo al petto, un passo indietro, una spinta, un passo. Orem aveva già visto quell’espressione sulla faccia del ragazzo più grande: era quella che avevano avuto Cressam e Morram e Hob quando l’avevano buttato nel mucchio di fieno per bruciarlo vivo.

— Rana, non è niente — disse Pulce. Chi era Rana? Pulce voleva placare il ragazzo più grande o assicurare il più giovane che perdere non sarebbe poi stata una tragedia? Orem non riuscì a capirlo, perché nessuno dei due diede segno di aver sentito. La discussione non era più sui serpenti. Era su chi avrebbe fatto la volontà dell’altro.

Poi fu finita. Quello più giovane diede una spinta all’altro, che gli afferrò le mani, e con un solo movimento lo gettò verso il pozzo. Sul momento, Orem fu solo disgustato all’idea di finire sui cadaveri dei serpenti. Poi scoprì che i Queruli non erano morti. Erano solo intontiti. Quando il ragazzo finì sui serpenti che erano nell’acqua, alcuni si risvegliarono, e quando si alzò ne aveva cinque o sei appesi.