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Orem non poté trattenersi: urlò insieme al terrore del ragazzo. I denti che trapassavano la pelle come aghi da cucito erano già una vista terribile, ma c’era anche un serpente che gli pendeva da un occhio, come se fosse cresciuto lì. Il ragazzo si piegò in due, e parve vomitare tutto il sangue che aveva in corpo. Poi cadde a terra e giacque immobile come aveva fatto il topo, con i serpenti che cercavano inutilmente di spalacare le bocche abbastanza per inghiottirlo. Per qualche ragione, tutto quello a cui Orem riuscì a pensare fu il Levriero che afferrava la spalla di Glasin il Droghiere fra le sue mascelle, e ne strappava la carne. E tuttavia quello non era un sacrificio così degno. Il ragazzo era ricoperto da una massa vivente di serpenti che lo avvolgevano nei loro corpi e lo leccavano con lingue dardeggianti, eppure Orem non riusciva a distogliere gli occhi.

— Hai visto abbastanza? — chiese Pulce a bassa voce.

Orem non riuscì a parlare.

— Andiamo, adesso — disse Pulce — altrimenti non usciremo dalla Palude vivi. Vieni?

— A Waterswatch Alta — disse Orem — lottavamo e ci inventavamo storie. È così che giocavamo.

— Non c’è alcun nome per un uomo in quello — disse Pulce. — Ma ricordo che sei stato svelto a prendermi per le palle, per amore dei tuoi denari.

Orem seguì Pulce fuori dalla Palude, sentendo alle sue spalle i lamenti dei Queruli per tutto il tempo. Solo quando raggiunsero le baracche, Orem si rese conto che teneva ancora la bisaccia con dentro il topo. Impulsivamente, la sbatté contro il muro di una casa.

— In nome di Dio — gridò Pulce. — Cosa fai?

— È tanto prezioso per te un topo? — chiese Orem.

— Non il topo, Magro, la casa. Se gli fai un buco nella parete, rischi di ucciderli quest’inverno, se non trovano una pezza.

La casa era sacra, ma un ragazzo poteva morire per nulla nella Palude. Orem porse a Pulce la bisaccia. Pulce la rovesciò e lasciò uscire l’animale. Il topo non era morto, ma il colpo l’aveva intontito. Si mosse ondeggiando, come un ubriaco. Pulce gli mollò un calcio e lo spedì trenta piedi lontano, che si contorceva nell’aria.

— Qual era la penalità? — chiese Orem. — Per quelli che hanno perso?

Pulce alzò le spalle. — Solo un po’ di tappo-nel-buco. Rana non doveva protestare. Aveva una sorella che poteva pagare per lui.

— Tu ce l’hai una sorella? — chiese Orem.

— No — disse Pulce. — Ma io non perdo. — Sorrise. — Li so giudicare bene i Queruli, io.

— Perché lo fai? — chiese Orem. — Perché giochi così vicino alla morte?

Pulce alzò le spalle. — È quello che sono.

Il segreto della fontana

Orem disse che era capace di trovare da solo la strada per la locanda, dalla Via di Legno, e i due si lasciarono, promettendo di rivedersi il mattino dopo per proseguire la ricerca di un lavoro per Orem. Orem aveva una cosa da fare prima di tornare alla locanda. Trovò la strada fra le vie che si stavano vuotando fino al Piccolo Tempio, e il diacono gli mostrò la fontana dove si recavano sempre i forestieri.

La fontana non era granché. Nessuno gli chiese di pagare, e neppure chiese un’offerta; raggiunse la fontana e ci versò la fiasca di acqua di fonte. Non sapeva bene che preghiera venisse detta lì, così mormorò una preghiera per suo padre, poi immerse di nuovo la fiasca per prendere l’acqua sacra, che Glasin gli aveva detto era così preziosa.

Prima di andarsene guardò nella fontana per vedere da dove arrivava l’acqua. Guardò per un po’ prima di rendersi conto che non c’era alcun sistema di riempimento. Era solo una vasca, non una fontana. Versò di nuovo l’acqua, senza averla assaggiata. La fontana veniva riempita dai visitatori che si recavano a Inwit, che lasciavano lì l’acqua delle loro case e non prendevano nulla di Inwit, ma soltanto i doni mezzo evaporati di altri sciocchi.

Una truffa, naturalmente, un imbroglio. Orem quasi sputò nell’acqua, ma si fermò, pensando che il successivo visitatore non gli aveva fatto alcun male. Avrebbe potuto dividere la sua acqua con Pulce, se l’avesse saputo. Era questo che lo faceva arrabbiare di più: che non era stato generoso con la sua acqua.

Di ritorno al Badile e alla Fossa, il padrone gli chiese un altro denaro.

— Ma ho pagato ieri per due notti.

— Lo so. L’altro denaro è per domani.

— Ma è solo una notte. Dovrebbe essere mezzo denaro.

— Puoi restare un’altra. — E fu tutto. Il visto era per tre giorni, la stanza per due più due, prendere o lasciare. Almeno, gli diedero una scodella di zuppa. Anche loro avevano una coscienza.

14

SERVI

Non ho mai saputo cosa significasse vedere, se non uscendo dalla nebbia. Così disse Orem, il Piccolo Re; così mi disse quando pensava di non essere saggio.
L’acqua della regina

Non sembrava neppure mattina quando Orem uscì dalla locanda, tanto era fitta la nebbia. Gli edifici dall’altra parte della strada erano invisibili, a meno di non andare in mezzo alla strada. I passanti gli apparivano davanti all’improvviso, e quasi gli venivano addosso. Doveva camminare adagio e guardarsi bene intorno. Ogni tanto si sentivano imprecazioni, e scambi di “Cieco!” e “Scemo!”. Orem aveva paura di perdersi e di sprecare il suo ultimo giorno intero nella città, ma Pulce lo trovò.

— Cosa vuoi che sia la nebbia? — disse. — Se ci chiudessimo in casa quando c’è la nebbia, si lavorerebbe molto poco a Inwit. Per me è una giornata d’oro. Mi sono già guadagnato tre denari, senza neppure un coltello per tagliare le borse.

Sapere di avere un ladro come compagno metteva Orem a disagio, ma non aveva nessun’altra guida, e in una giornata come quella aveva più che mai bisogno di Pulce. Il giorno prima avevano battuto la parte settentrionale. Quel giorno provarono a est, sperando di trovare lavoro per Orem in un ufficio contabile, o in qualche posto dove la sua educazione potesse essere utile.

Ma non erano scrittori, lettori o contabili quelli che volevano nella parte est della città. Erano ragazzi per gli sport crudeli del Gioco, e per i letti dei pederasti: ragazzi che potessero sparire senza che nessuno li andasse a cercare. Per due volte Orem si fece attirare in posti dove sarebbe stato meglio non andare, e per due volte Pulce dovette tirarlo fuori, e non con le parole.

Lasciarono un giocatore con un calcio nelle palle bene assestato. Corsero un pericolo maggiore nella Grande Borsa, perché quando rifiutarono la lucrosa offerta del mezzano di un banchiere, questi si mise a gridare “Al ladro!” Solo la nebbia li salvò, e l’abilità di Pulce nel cercare scampo in posti in cui un adulto non avrebbe mai pensato di guardare. Verso la fine del pomeriggio, si trovarono vicini alla bocca dell’acquedotto, senza fiato per il gran correre.

I grandi archi si fermavano prima di aver attraversato completamente la strada. Ai piedi dell’ultimo arco c’era una piccola vasca, sorvegliata dalle guardie e circondata da file di persone che attendevano di riempire una fiasca, un otre, un’anfora.

— Hai sete? — chiese Pulce.

— È sicuro aspettare qui? Non ci seguiranno?

Pulce sorrise. — Vediamo se si può accorciare la fila. — Camminò fra le file fino a un punto abbastanza vicino alla vasca, poi con un grande gesto disse ad alta voce: — La generosità della Regina.

Qualcuno vicino cercò di zittirlo, ma gli altri Fecero finta di non sentire. — Acqua — disse Pulce — dalla grande Casa dell’Acqua nel Castello. Una sorgente abbondante tutto l’anno, da cui l’acqua scorre senza bisogno di scavare, e nella sua generosità la Regina lascia scorrere ben metà dell’acqua in città.