— Basta, basta! — gridò il vecchio. — Allora sei stato istruito da prete?
— Abbastanza per sapere che non sarei mai stato un prete.
— E neppure il servitore in una grande casa. Nessuno vi vuol male. Proprio no. Ti facciamo i nostri auguri. Ma il lavoro di un servitore è di essere invisibile, di fare tutto silenziosamente; il lavoro di un servitore è non dare segno che venga fatto alcun lavoro. Un servitore si muove come un ballerino. È un’arte: ecco cos’è. Un’arte, e noi nasciamo e siamo allevati per essa, e non c’è speranza che qualcuno possa appropriarsene. Cosa faresti se il padrone avesse bevuto troppo vino, e ne volesse ancora?
Orem sorrise e alzò le spalle. Come faceva a saperlo?
— Metti acqua nel vino? Mai. Rifiuti di portarglielo, o gli dai mezzo bicchiere? Mai. No: ci aggiungi il liquore più forte che ci sia in casa, affinché il bicchiere successivo lo stenda, e tu ti metti graziosamente al suo fianco, saluti i suoi ospiti uno per uno a suo nome, e tutti gli toccano la mano andandosene, cosicché la mattina dopo potrai dirgli: “Avete stretto la mano a tutti, quando se ne sono andati.” Nessuno pensa male di lui, perché è stato fatto graziosamente, e anche se lui sa quello che hai fatto, non gli importa perché questa è la maniera in cui deve essere fatto. Siamo noi quelli che mandiamo avanti le cose a Inwit. Chi credi che serva nel palazzo? Noi, le Cinquanta famiglie. Noi siamo i soli servitori di Inwit e lo siamo stati dall’inizio. Quando Dio stava ancora dicendo il suo nome a degli stranieri, noi servivamo il pane e la carne. La Casa di Grell ha bisogno di un ragazzo per pulire le scale? Io ho un nipote. La Casa di Bran ha bisogno di una bambinaia? Mia moglie sa occuparsi dei bambini, ed è anche capace di insegnare il ballo. La mia famiglia si chiama Dyer, e abbiamo un uomo o una donna al servizio di ogni grande casa, e in posti di responsabilità anche. Nulla accade nella Strada della Regina che noi non veniamo a sapere.
Mi fanno male i piedi, pensò Orem. Qual è la tua offerta?
— Credi tu che questi signori governino tutto? Sciocchezze. Noi governiamo. È uno di noi che fa il maggiordomo e dirige la casa. Chi è il fattore che si occupa delle sue terre, se non uno di noi? Oh, il signore prende le decisioni, ma chi è che gli fornisce tutte le informazioni che gli servono per decidere? Noi siamo i signori di Inwit, siamo il flusso e il riflusso di tutto. Noi concediamo loro di che vivere, e loro credono di pagarci! Credono perfino di assumerci!
— Ma l’offerta di cui ci hai parlato: per cosa puoi avere bisogno di noi?
Il vecchio si piegò in avanti, sorridendo. — Be’, vedete, mentre noi ci occupiamo delle loro case, cosa succede nelle nostre? Abbiamo delle belle case qui, sai, le più belle di Inwit, a parte quelle dei nostri padroni. Chi serve nella casa del servitore? È per questo che abbiamo bisogno di voi.
Il servo di un servo. Questo è il mio visto. Questo il mio ingresso a Inwit. Orem non si sentiva trionfante per aver trovato un lavoro. Cercava invece di ricordare se aveva mai sentito una canzone.su un servitore.
— Quanto? — chiese Pulce.
— Due denari la settimana — disse il vecchio. — Due denari la settimana, un pomeriggio libero, un altro nei giorni santificati, se adorate Dio, oltre a una stanza e due pasti.
— Due denari — disse Pulce, impressionato.
— E il meglio è questo: vi sposerete qui, metterete su famiglia qui, avrete figli, e loro, i vostri figli e le vostre figlie, saranno quello che voi non potete essere. Porteranno la livrea, apprenderanno le parole e i tempi, staranno al fianco di grandi uomini e saranno parte della nostra famiglia, la famiglia Dyer, e ci onorerete per sempre. Sarete i padri di membri della Cinquanta famiglie, anche se non lo sarete mai voi stessi.
Orem capì che doveva rifiutare. Non sapeva perché, neppure lontanamente. Era un lavoro, era un modo di stare a Inwit, ma era insopportabile. I suoi figli e le sue figlie servitori, e i loro figli e le loro figlie, per l’eternità, tutti i suoi figli che si inchinavano e svanivano, cucinavano e svanivano, pulivano e svanivano. — No — disse Orem. — Grazie, signore, ma no.
Pulce lo afferrò per la camicia, tirando così forte che si strappò al collo. — In nome di Dio, Magro, è la nostra occasione! Non si discute su un visto e due denari la settimana!
— Il giovanotto è rozzo, ma ha ragione — disse il vecchio. — Io non mi metterei a contrattare. So di essere generoso.
— Non sto contrattando — disse Orem.
— Allora cosa? — chiese il vecchio.
— Dico di no.
— Allora sei uno sciocco — disse l’altro con disprezzo.
— Sì. Non c’è dubbio.
— E io? — chiese Pulce al vecchio. — Mi prenderai senza di lui?
Il vecchio fece un sorriso a labbra strette. — A un denaro la settimana. Lui sa leggere. I due alla settimana erano perché eravate venuti insieme.
— Uno o due alla settimana, per me va bene.
— Resta, Pulce — disse Orem.
— Grazie di tutto. Che i doni di Dio siano con te. — Gli rivolse un cenno di saluto, e scese dalla veranda. Suo padre era stato solo un contadino, troppo povero per dare una parte di terra al suo settimo figlio, ma era stato un uomo libero; anche suo figlio era libero, e non avrebbe messo al mondo figli meno liberi di lui.
Era uscito dal vicolo e si stava addentrando dentro la nebbia, che si faceva più fitta e più scura, quando sentì dei passi alle sue spalle. Riconobbe chi correva. — Pulce — disse.
— Fottuto — disse Pulce.
— Può darsi.
— Due pasti al giorno e in più dei soldi. Perché no, nel nome del sangue di mia madre?
— Sono venuto a Inwit per un nome, un posto e una poesia.
— Credevo che fossi venuto per trovare lavoro.
— Perché lavorare? Per vivere. Ma perché vivere? Non per quello. Non farmene una colpa. Tu potevi restare.
— Fottuto! Credevo che sapessi quello che facevi. Una poesia! Il piscio di mio padre. — E Pulce sputò a terra, per sottolineare il concetto.
— Allora torna.
— Lo farò.
— Bene.
— Domani.
Camminarono in silenzio, e si fermarono insieme davanti alla porta del Badile e della Fossa. La nebbia era fitta, la notte era su di loro, sopra i tetti si scorgeva solo una pallida luce; le lanterne brillavano patetiche, come se nutrissero qualche illusione di gettare un po’ di luce in un’aria così umida. — Che genere di poesia? — chiese Pulce a bassa voce.
— Una poesia vera.
— Vuoi una poesia del genere, Magro?
— Perché no?
— Gli eroi fanno grandi cose.
— Io intendo farle.
— Gli occhi di mia madre.
— E non c’è speranza per il servo di un servo.
— Adesso cosa farai, Magro? Non hai il visto per domani.
— Uscirò. E tornerò.
— Quando la guancia sarà guarita! Fra qualche mese!
— Tornerò in un altro modo.
Pulce scosse la testa. — Non conosco quella parte della città. Non conosco quelli che entrano in quella maniera.
— Buona notte, Pulce — disse Orem. — Di sicuro sono uno sciocco. Torna da quel vecchio e vivi contento.
— Le parole più vere che abbia mai sentito. Dio ti aiuti. — E Pulce svanì nella nebbia.