Orem dormì bene quella notte, con sua sorpresa, e il giorno seguente scese da basso e disse al proprietario di andare a farsi fottere, anche se ancora non aveva capito bene cosa volesse dire. Poi andò in un’altra locanda e mangiò una colazione da un denaro, che gli fece male allo stomaco, ma non per questo gli sembrò meno buona. Era il suo gesto di sfida dopo aver quasi digiunato tre giorni per risparmiare.
E mentre usciva dalla locanda, con la pancia piena e contento, passò accanto a un ragazzino che bighellonava vicino alla porta, e non lo riconobbe fino a quando non ebbe fatto un paio di passi nella strada. Si voltò e disse: — Pulce!
Pulce lo guardò infastidito. — Avresti potuto conservare un po’ di quella roba per me.
Si incamminarono insieme in direzione della Strada del Piscio.
— Credevo che avresti fatto colazione con quel vecchio — disse Orem. — Credevo che mi avessi detto addio.
— Avrei dovuto farlo — disse Pulce. — Ma sono così scemo che ho creduto a quello che mi hai detto ieri sera. Se tu puoi avere una poesia, Magro, perché non posso anch’io? Peserò il doppio di te quando sarò cresciuto. Mio padre maneggiava l’ascia per il Re, mi ha detto mia madre. Mi ha detto anche altre cose, ma chissà se erano vere… Forse.
— Forse.
— Portami con te quando andrai a guadagnarti la tua poesia. Promettilo.
— Per la mia speranza di un nome e di una poesia, te Io prometto — disse Orem solennemente.
Pulce non disse nulla. Toccò soltanto la mano di Orem per un attimo. E quando la staccò c’erano tre denari nella mano di Orem.
— No — disse Orem.
— Non sono miei. Puoi anche tenerteli tu.
— Non posso prendere i tuoi soldi.
— Perché li ho rubati? Mentirò e ti dirò che li ho trovati, se preferisci.
— Non mi devi nulla.
— Mi metterai nella tua poesia. Perciò lascia che ti aiuti a cominciarla. — E con queste parole, Pulce corse via fra la folla nella Strada del Piscio.
Orem lo guardò sparire alla vista, e continuò a guardare anche quando da un pezzo era scomparso. Era in debito con un ladro dentro Inwit e con un falegname bugiardo fuori. Erano la cosa più vicina a uomini di onore che avesse trovato.
La fila all’uscita era lunga come quella all’entrata, ma questo succedeva perché era mattina; e questa volta la fila si muoveva in fretta. Nome, restituisci il visto, fai vedere la cicatrice alla guancia, e poi fuori. Per un momento quasi si voltò, quasi corse indietro nel vicolo dei servi per prendere il posto che gli aveva offerto il vecchio, dimenticando i suoi sogni infantili. Ma poi la fila si mosse, lo spinse fuori, e ne fu contento.
C’era Braisy, l’ometto con la faccia astuta, appoggiato alle mura, che guardava i poveri che lasciavano scoraggiati la porta. Orem andò dritto verso l’uomo.
— Cinque denari — disse Orem.
— Un allegro saluto. Cinque era tutto quello che avevi tre giorni fa. Quanto hai adesso?
— Cinque.
Braisy lo guardò, sollevando le sopracciglia. — Un piccolo fottuto pieno di risorse, eh?
— Cinque. Voglio entrare nell’altro modo. Se c’è lavoro.
— Non ti prometto nulla. Diavolo, non ti prometto neppure di farti arrivare fin dentro. Conosco le prime porte, e i nomi di quelle che hanno dei nomi. Più di quello che sai tu, ecco tutto. E sono cinque denari fin là.
— Allora andiamo.
— Hai una gran fretta. — Braisy si leccò le labbra. — Forse faresti meglio ad aspettare che ti sia guarita la guancia.
— Stai cercando di alzare il prezzo?
Braisy lo studiò un momento, poi fece un largo sorriso. Se avesse avuto più denti, Orem avrebbe detto che era un sorriso minaccioso. — D’accordo. Cinque denari. Subito.
— Uno adesso, uno alla prima porta, il resto quando sarò arrivato fin dove mi sai portare, se mi sembrerà avanti abbastanza.
— Due adesso, tre alla porta.
— Uno adesso, due alla porta, due alla fine.
— Affare fatto. Ma fammeli vedere prima.
Orem fece un passo indietro e gli mostrò i denari, a una distanza tale che non potesse portarglieli via.
— Hai imparato la cautela, vero?
— Uno adesso. — Orem gli gettò la moneta. Braisy la prese al volo, la soppesò su un dito, e se la fece scivolare nella camicia, sotto l’ascella. Deve avere una borsa lì, pensò Orem. Ho bisogno anch’io di una borsa. Per sicurezza. Ci sono ladri capaci di rubarti i soldi dalle mutande.
Fu così che Orem violò la legge ed entrò attraverso la Porta Occidentale, invece di scegliere la sicurezza come servo di un servo. Dimmi, Palicrovol, puoi immaginare che tuo figlio avrebbe scelto altrimenti?
15
IL BUCO
Braisy lo condusse attraverso un labirinto di stradine nella Città dei Mendicanti, fino a una taverna lontana dalle torri gemelle del Buco. Non era una taverna dipinta a colori vivaci come il Badile e la Fossa, ma un posto squallido, cadente all’esterno, sporco e corrotto all’interno. Braisy mostrò una moneta, e il padrone annuì.
La moneta roteò nell’aria. Prima che il padrone l’afferrasse, Orem notò che era d’argento. Non di rame. Fu allora che ebbe paura. Se il primo prezzo che Braisy doveva pagare era di tanto più grande dell’intera somma che gli pagava Orem, voleva dire che qualcun altro pagava Braisy per il passaggio di Orem.
— Devo pisciare — disse Orem.
— Non adesso — rispose Braisy. Non se la sarebbe cavata così facilmente. Con una stretta dolorosa al braccio, Braisy lo spinse su per le scale, e dentro una porta aperta.
Solo una debole luce filtrava dalle fessure di una finestra chiusa da assi. C’era qualcun altro nella stanza. Era troppo buio per vedere più di un’ombra che si disegnava contro le fessure della finestra. Un respiro pesante e un fiato puzzolente.
— Nome. — Era un sussurro, e ancora Orem non riusciva a capire se fosse un uomo o una donna, vecchio o giovane, gentile o crudele.
— Orem.
— Nome.
— Mi chiamano Fianchi-Magri.
— Nome.
— Di Banningside. Orem Fianchi-Magri di Banningside. — Ancora il respiro pesante. L’ombra non gli credeva.
— In nome di Dio, è vero — disse Orem.
Un sospiro; come il lamento appena udibile di un Querulo. — Non vedo né verità né menzogna.
— Lo infilzo, allora? — chiese Braisy.
Orem si preparò a scappare: non voleva morire di pugnale in un posto simile. Ma Braisy era forte, più forte di quanto si potesse pensare per un uomo così piccolo. Poi la mano secca dell’ombra, fragile e leggera come carta, gli accarezzò il braccio nudo. — Calma, calma — si sentì il sussurro. — Calma, calma. — Poi una puntura sul braccio, qualcosa di affilato come un rasoio, o una pietra aguzza, che raccoglieva il sangue che si era senza dubbio formato, e l’ombra si allontanò.
— Dolce dolce Sorella sorella sorella — venne il sibilo da un angolo della stanza. — Nulla, nulla.
— E allora cosa si fa? — chiese Braisy. La sua voce parve un grido, nella stanza così silenziosa.
— Passa o resta, resta o passa, è lo stesso, cosa posso dire?
Esitazione.
— Devo pisciare.
La mano di Braisy si strinse più forte attorno al suo braccio. — Non ora, non ora. Sto pensando. Chi sei, ragazzo?
Uno che ha paura di morire, ecco chi sono. Mi hai preso il sangue, in nome di Dio! Lasciatemi andare. — Orem ap Avonap — disse. — Prova questo nome.