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Poi il mago lo fece uscire sulla strada, mentre nascondeva magicamente l’ingresso del passaggio. Lo fece uscire con un avvertimento: non hai visto, non cercare di scappare. Mentre rimaneva ad aspettare nella strada buia, Orem era felice. La Speranza del Cervo. La Traccia del Cervo. L’albero spezzato che non sarebbe morto. La città che era prima dell’arrivo di Dio. Era la città che Orem era venuto a cercare.

16

IL SAPORE DELLA FORZA

Come Orem seppe della morte che rosicchiava il cuore del mondo.
Nella casa del mago

Come tutti i maghi di Inwit, a quel tempo, Vetro-di-Forca abitava nella Via dei Maghi. La sua casa aveva un’apparenza normale e modesta, vista dall’esterno. L’unico segno distintivo era un ferro di cavallo appeso a un chiodo, poiché una volta era stata la casa di un fabbro. I cardini erano talmente consumati che le porte parevano appoggiarsi più che chiudersi, e un’imposta sbatteva al vento che soffiava lungo la strada. Sulla veranda c’era della polvere che pareva lì da anni. Tuttavia il mago non sembrò notare niente di strano mentre saliva i gradini, afferrava una porta e la spostava.

— Entra, entra — sussurrò. Orem entrò, chinando la testa per evitare una pesante ragnatela il cui proprietario non gradì molto l’intrusione. Era buio dentro, e divenne ancora più buio quando il mago entrò e chiuse la porta.

— Lampada, lampada — disse, cercando nel buio.

— Cos’è questo posto?

— Il celeste focolare, il letto gentile, il conforto del cuore. In una parola, il mio domicilio.

Vetro-di-Forca trovò un fiammifero. Lo strofinò una volta, due; non voleva accendersi. I fiammiferi avevano un incantesimo dentro, tutti lo sapevano, e adesso Orem capì perché sua madre lo mandava fuori di casa ogni volta che doveva accendere il fuoco della cucina. Vetro-di-Forca mise giù i fiammiferi. — Dobbiamo proprio insegnarti in fretta.

Accese una fiamma senza magia. — Pietra e acciarino, dove siete? Eccoli. — Vetro-di-Forca era molto meno abile di Braisy. Finalmente ci fu una scintilla e una fiammella, ma non con la lana, bensì con un pezzo di carta. Bruciare la carta era una cosa che Orem non aveva mai visto fare prima. La carta era troppo preziosa, nella Casa di Dio a Banningside. Tuttavia ardeva, e Orem si guardò intorno mentre Vetro-di-Forca accendeva la lampada.

Era una stanza piccola e piena di roba ammassata in disordine su mensole curve contro le pareti, accumulata per terra e sui gradini della scaletta ripida che portava alla stanza di sopra. Contro una parete c’erano tre grossi barili, senza alcuna scritta, ma umidi e coperti di muschio. E su tutto, uno spesso strato di polvere.

— Non potevi trovare un posto migliore? — chiese Orem.

Vetro-di-Forca lo guardò infastidito. — Di solito non ha questo aspetto. Ma ci sei tu, così dovrò fare a meno dei miei normali mobili, per un po’. — Mentre diceva queste parole, la lampada si spense. — Accidenti, ragazzo, perché non vai di sopra, così posso accenderla come si deve?

Orem trovò le scale, nel buio, e salì fra le ragnatele. Poi ascoltò Vetro-di-Forca che armeggiava di sotto. Ben presto si sentì un fuoco crepitare, anche se non c’era stato un focolare nella stanza, prima. E poté sentire Vetro-di-Forca andare da una stanza all’altra, aprendo e chiudendo le porte, anche se prima c’era stata solo quella stanza. Con la magia quel posto si trasformava in un palazzo. Con un Pozzo diventava una catapecchia. Il mago non si era mai occupato delle faccende domestiche, con la magia ad aiutarlo.

Poi sentì la voce di Vetro-di-Forca. — Non ho potuto farne a meno — disse il mago lamentosamente. Ci fu un sussurro in risposta? Nessuno era entrato con loro. Orem aspettò, con le orecchie tese, e alla fine, dopo un tempo che gli parve di ore, divenne impaziente.

— Vetro-di-Forca!

— Non scendere le scale o ti rompo la testa!

— Non sto scendendo! Non mi sono mosso!

— Bene! È la sola cosa che ti faccia restare vivo!

— Ho fame! È buio quassù!

Di sotto si sentì il coperchio di una botte che veniva chiuso con una mazza. Poi Orem sentì i passi del mago che salivano le scale. Dapprima come se ci fosse un tappeto, poi di colpo si sentì la suola delle scarpe sul legno nudo. — Che le ossa dei tuoi antenati marciscano. — La voce era bassa, ma chiaramente udibile, perché la testa del vecchio mago stava sbucando nella stanza. Sollevò la lampada, per far luce nella piccola stanza.

— Che schifo! — disse il mago.

Orem si disse silenziosamente d’accordo. Sporca, disordinata, odorante di marciume, era peggio delle stanze del Badile e della Fossa.

— Ecco — disse Vetro-di-Forca. — Gli porse un piatto con del pane secco.

— È tutta qui la mia cena?

— Era colomba arrosto quando l’ho preparata, di sotto. Non posso farci niente se tu la riduci così.

— Neanch’io posso farci niente — disse Orem. — Ma non posso vivere di pane secco.

— Allora impara in fretta — disse il mago. — Ero pronto ai pericoli di averti con me, ma non agli inconvenienti! — Vetro-di-Forca frugò fra il ciarpame e tirò fuori una branda con uno strappo in mezzo alla tela. — È quanto di meglio posso offrirti. — Devi accontentarti, fino a quando non avrai imparato.

— Sarebbe il mio letto?

— Finché non avrai imparato, maledetto impiastro! Non lamentarti, quando la colpa è tua!

— Allora insegnami! — ribatté Orem.

— Non posso insegnarti così! — e il mago fece schioccare le dita davanti alla faccia di Orem. — Posso solo suggerire, reagire, informare… tu devi imparare. E dentro di te, una volta che avrai imparato a riconoscerlo e a controllarlo. Come faccio a insegnarti? Non sono mai stato un Pozzo, io.

— Qualsiasi cosa ci sia da fare, cominciamo subito — disse Orem.

— Che tono, il piccolo bastardo!

— Ho solo fame.

Il mago lo fece stendere sul pavimento, con un pezzo di tela arrotolato sotto la testa. Poi una serie di strani ordini, a voce bassa: Allunga le dita, chiudi gli occhi, e dimmi il colore dell’aria sopra la tua testa. Cerca di sentire il rumore della mia barba che cresce. Sì, ascolta, allunga le dita; cerca di sentire il sapore del sudore dentro gli occhi.

Orem non ci capiva niente. — Non posso — mormorò.

Il mago non gli badò, e proseguì: — Stai dormendo, mentre mi ascolti, dormendo finché pensi di essere sveglio, sveglio solo quando scopri il tuo sonno. Senti l’aria diventare più calda, sentila sulla nuca, guarda il sole splendere, guardalo con il punto morbido dietro il ginocchio, sì, hai un occhio segreto lì, guarda com’è bianco.

C’era qualcosa di impellente nel ritmo delle sue parole, nella cadenza, che a volte sembravano una preghiera, a volte una canzone, a volte l’abbaiare di un cane infuriato. I sensi di Orem divennero confusi. Smise di vedere attraverso gli occhi, e tuttavia era ancora consapevole di vedere, o qualcosa del genere. Un grigiore attorno a lui, come la nebbia del giorno prima. Poteva udire lo scorrere del tempo. Non avvertiva più dentro di sé dove erano le dita, ma piuttosto le gustava, e la lingua gli bruciava nella bocca, poi era di ghiaccio, poi si raggrinzì e rimpicciolì finché non perse il filo di ciò che era la bocca, ciò che era la lingua, e perfino di ciò che era Orem.