Quella notte Orem non dormì a lungo. Si svegliò agitato, e si trovò nella branda, non nella stanza di mogano. Nel sogno, la testa in salamoia della moglie del mago l’aveva chiamato, e lui era andato da lei perché non poteva rifiutarsi.
C’era una debole luce nella biblioteca. Veniva dalla muffa verde che ricopriva i barili. Si sedette su una pila di cianfrusaglie, nella stanza sporca e priva di magia. Osservò.
Fu il barile che conteneva la moglie che tremò per primo; poi gli altri, come se i cadaveri al loro interno avessero delle silenziose convulsioni e scuotessero i barili, agitando l’acqua. Poi un coperchio saltò via rumorosamente; un altro si spezzò a metà; il terzo venne risucchiato nel barile, e l’acqua lo coperse mentre veniva attirato dentro.
Nel sogno Orem non avvertiva alcun segno di pericolo, ma aveva paura. Le cose morte dovevano starsene ferme, tutti lo sapevano. Ma quando i morti chiamano, solo uno sciocco si rifiuta di ascoltarli. Così rimase e vide una mano uscire da un barile, da due, da tutti e tre: mani dalle lunghe dita, con rivoli di luce verde che scendevano lentamente, come bruchi, lungo i polsi.
— Non fatemi male — sussurrò Orem.
D’improvviso tutte le mani puntarono verso di lui. Orem boccheggiò, chiamò a raccolta il suo potere di negazione per fermarle. Ma quella non era una magia; non la magia legata al sangue che un Pozzo può inghiottire. Le mani rimasero indifferenti ai suoi sforzi più intensi. Si piegarono sotto il bordo dei barili, e con un dito ciascuna cominciarono a scrivere sulla muffa. Orem poté leggere le linee scure sulla muffa luminescente, ciascuna donna la sua parola, ciascuna tremando, come se una forza incontenibile le controllasse.
“Sorella” scrisse la moglie.
“Dio” scrisse la figlia dai capelli neri.
“Corno” scrisse la figlia dai capelli biondi.
Poi più in fretta, mentre le mani diventavano più sicure.
Sorella Dio Corno
Puttana Schiavo Pietra
Tu Tu Tu
Devi Devi Devi
Vedere Servire Salvare
Poi le mani tremarono violentemente, si alzarono nell’aria e si rituffarono nell’acqua, tornarono a uscire, ma vennero risucchiate di nuovo, come se cercassero di scrivere ancora, o addirittura di lasciare le botti, e qualcosa glielo impedisse con la forza. La volontà di scrivere ebbe il sopravvento: le dita tracciarono in lettere appena leggibili parole che avevano un significato solo insieme.
Lascia ci morire
Era finita; le mani si rituffarono nell’acqua; i coperchi tornarono al loro posto; quello spezzato parve tornare integro chiudendosi. La muffa perse la sua luminescenza, le ultime lettere delle ultime parole svanirono in un nerume uniforme. Orem corse di sopra.
Sorella puttana tu devi vedere.
Dio schiavo tu devi servire.
Corno pietra tu devi salvare.
Lasciaci morire.
Non capiva nulla, e giacque fra la veglia e il sonno tutta la notte, cercando di capire, cercando di non pensare. Se l’ultimo messaggio era delle donne del mago, che parlavano per se stesse, allora il primo messaggio di chi era? Ma aveva davvero un significato? Chi poteva sollevare le mani dei morti, anche quando la forza di un Pozzo aveva rubato tutta la magia?
Soltanto alle prime luci dell’alba pensò di fare la cosa più ovvia, più istintiva: sommò le parole verso l’alto, verso il basso, da destra a sinistra e da sinistra a destra. La somma delle colonne verso l’alto era Palicrovol. Quella verso il basso Bella. E in qualunque senso venissero addizionate le righe, davano sempre il medesimo risultato: Dai tutto, prendi niente.
Per tutto l’inverno e per tutta la primavera, Orem imparò a usare i suoi nuovi sensi. Non aveva parole per descrivere, anche a se stesso, ciò che sentiva, perciò adattò le parole che aveva. Quando me lo descrisse, era un racconto di lingua e di gusto, punzecchiature e bastonate, anche se per tutto il tempo giaceva immobile come un morto sulla branda.
Verso la fine della primavera Vetro-di-Forca decise che era pronto per guadagnarsi il vitto e l’alloggio. Perciò Orem cominciò a estendere i propri sensi lungo la Via dei Maghi. Percepì le magie degli altri maghi come piccoli fuochi, alcuni molto caldi, altri che si andavano raffreddando, a seconda della loro forza. E lui ne assaggiò alcuni, o ne pizzicò altri, o qualche altra parola inadatta che descriva quello che fece, e tutta la forza guadagnata col sangue svanì.
Fin dall’inizio l’esperimento fu un successo.
— Orem! Mio Fianchi-Magri! Avresti dovuto sentire i lamenti! Per tutta la Via dei Maghi! Due case tenute su dalla magia sono crollate. Un vecchio mago che teneva in funzione il corno con incantesimi ha ricevuto una tale umiliazione che non andrà nella Via delle Puttane per qualche anno. E non potranno mai sapere se un incantesimo funzionerà o no. I topi e le pecore che hanno versato invano il loro sangue in tutti questi anni… Ah, se tu potessi sentire i pianti di quei tangheri! Nelle taverne dove ci troviamo noi maghi io ascolto, mi lamento come gli altri. Qualche volta pensano che siano gli Uomini di Dio, che hanno scoperto qualche terribile incantesimo. E qualche volta pensano che sia la Regina, che li sta rimettendo al loro posto, anche se è passato molto tempo da quando si è data pensiero dei nostri miseri poteri. Alcuni pensano che siano le Dolci Sorelle, e che è ora che le donne prendano il loro posto fra i poteri del mondo. Nessuno di loro sospetta, nessuno immagina, che qui, nella mia miserabile sporca bottega di fabbro che uso come casa, ho trovato e addestrato un Pozzo!
— Ha funzionato, allora? — chiese Orem.
— In un certo modo. C’è stato un tentativo di assassinio alla Grande Borsa, un omicidio ben pagato… Sei stato tu a mandarlo a monte?
— Non so. C’era qualcosa, lontano. Non posso distinguere tutto.
— Era veleno. Tu gli hai tolto il potere, ma il sapore è rimasto. Per fortuna l’assassino si è ucciso prima di denunciare il mandante… Un tipo fedele alla parola, una cosa rara di questi tempi. Ma c’è stato un mago che ha visto in faccia la morte per alcuni istanti, te lo dico io.
— E chi era?
— Io. Devi imparare a distinguere fra le mie magie e quelle degli altri, o sarà un guaio.
E così passarono in rassegna tutto quello che Orem aveva fatto, e Vetro-di-Forca gli mostrò tutti i suoi incantesimi e i suoi poteri, e Orem poco alla volta imparò a distinguere la fiamma di un mago da quella di un altro dal sapore, dal tatto, dal colore.
Fu così che conobbe dapprima la Regina Bella dalla sua magia.
Era la fine dell’autunno, e Orem vagava in lungo e in largo, seguendo i suoi sensi dove lo conducevano. Sapeva grazie a essi quali punti di luce erano uomini e quali donne; aveva imparato la differenza fra il bianco di un uomo sveglio e l’argento brillante di un’anima addormentata. Imparò anche che le cose fatte in un posto vi indugiavano anche dopo che gli uomini se ne erano andati, e così poteva gustare una lunga e appassionata storia d’amore e dire quando l’accoppiamento era solo comprato, poteva odorare la differenza fra una casa in cui c’era amore e una in cui c’era odio, poteva percepire nel terreno che tipo di uomo era passato attraverso una certa porta. C’erano i fuochi dei maghi, le cui opere adesso riconosceva facilmente; c’erano le pozze di acqua amara dove gli Uomini di Dio erigevano isole fra la dolcezza circostante. Orem poteva seguire la vita del mondo come se fosse una mappa aperta davanti a lui. Sconfiggeva gli altri maghi con tale facilità che non c’era più nessun divertimento. Fu la noia, in una fredda sera d’autunno, che lo spinse a cercare Re Palicrovol. Era un gioco, per vedere se riusciva, in piccolo, a uguagliare la Vista della Regina.