— Stai diventando vecchia, e la forza che hai comprato sta svanendo.
Fu così che tu cominciasti un’altra volta a raccogliere il tuo esercito, e Bella cominciò a cercare un padre adatto per il suo figlio di dodici mesi. Quando ti ebbe ritrovato, e si fu assicurata che nessuno degli dèi e nessuno dei tuoi potenti amici si fosse liberato, obbligò le Dolci Sorelle a tessere un sogno per lei, sul telaio da lungo tempo inutilizzato. Mostratemi la faccia del consorte che farà da padre al mio potente bambino, disse. E le Dolci Sorelle… sapevano quale faccia mandarle nel sogno.
Avrebbe volentieri dormito fino a tardi, quel mattino, ma Vetro-di-Forca lo svegliò all’alba. — Cosa hai fatto? — chiese il mago.
— Come? — chiese Orem.
— Questa notte la casa ha tremato, e questa mattina mi sono svegliato alle grida di centomila uccelli. Ho guardato dalla finestra e il cielo ne era pieno, volavano in cerchio, e d’improvviso si sono dispersi, hanno volato lontano, ma tutti scendevano e risalivano sopra questa casa. Era vero o era una visione? Li hai chiamati tu?
— Non so come chiamare.
— No, era una visione, lo so. Non era una magia. Conosco la magia, e non posso sbagliarmi su questo. Non senti come trema il pavimento?
Sì, c’era un ronzio molto basso, che faceva vibrare il letto. Orem cominciò ad avere paura, ricordando la sua sciocca bravata. Non osava tenere all’oscuro il mago, perché solo lui poteva sapere cosa fare adesso. Così gli raccontò della sua battaglia notturna per Palicrovol, contro la Regina.
— Oh, Orem — sussurrò Vetro-di-Forca — appena hai un po’ di potere, subito vuoi strafare! Non avvicinarti neppure alla Regina!
— È lei che scuote la casa?
— No! Non è la Regina Bella. Non può sapere dove sei. Ma è già un guaio che sappia che esisti.
— Saprà che sono un Pozzo?
— Saprà che d’improvviso, da qualche parte di Burland, c’è un mago che può disfare ciò che lei ha fatto. Questo non le piacerà. Cercherà, indagherà, e saprà che anche qui, nella Via dei Maghi, delle magie sono state cancellate, e allora comincerà a chiedersi cosa sta succedendo.
Vetro-di-Forca camminava su e giù, battendo un pugno contro il palmo della mano. — È uno sciocco colui che cerca di sfidare la forza della Regina! La Regina potrebbe schiacciarci in un istante. Noi maghi ci lascia vivere perché non facciamo niente di pericoloso. Possiamo curare verruche e macchie della pelle. Possiamo fare incantesimi d’amore e di vendetta contro i nostri nemici, e beffe, e spiare. Possiamo perfino tenere in città sangue caldo di cervo e diventare invisibili alla luce del sole, quando ne abbiamo bisogno. Ma non oscuriamo il cielo né muoviamo i cuori delle masse in città. Non poniamo domande alle Dolci Sorelle e non facciamo tremare la terra.
I corsi dei fiumi sono al di là della nostra portata, e non parliamo coi venti, né avveleniamo il latte nel seno o prosciughiamo il seme nei lombi di un uomo.
Orem non replicò, perché proprio alle spalle di Vetro-di-Forca c’era un cervo con le corna a cento punte, che batteva gli zoccoli a terra, il grande collo sollevato in alto per sopportare quel peso impossibile. Il mago sentì la bestia quasi nello stesso istante in cui Orem la vide, e si voltò, si inginocchiò e disse: — Oh Cervo, perché sei venuto?
Il Cervo lo guardò, ma non si mosse per rispondere.
— Sei reale o sei una visione? — chiese Vetro-di-Forca.
Il mago aveva paura, ma non Orem. Quella era la bestia che aveva già visto fra i cespugli sulla riva del Banning, mentre sua madre si bagnava. Guardò gli occhi luccicanti e seppe che non doveva avere paura. Il Cervo non era venuto con ira. Orem uscì da sotto le coperte e andò verso il grande Cervo.
— Non spaventarlo — disse il mago.
— Non è venuto per te — disse Orem. — Ti perdona per i cervi che hai dissanguato nella torre, — Adesso Orem poteva vedere che il petto dell’animale si alzava e abbassava in profondi, silenziosi respiri, e che la sua pelliccia era bagnata di sudore.
Dove sei stato questa notte? Perché hai corso tanto?
Orem si inginocchiò e allungò una mano verso lo zoccolo. Il Cervo alzò la zampa e la porse al ragazzo; Orem non avvertì alcun peso, e tuttavia la sua mano non poteva chiudersi, e un grande calore gli entrò nel braccio. Il Cervo, benché privo di sostanza per Inwit, dimorava nella carne dentro la Città del Cervo.
— Perché sei venuto da me? — chiese Orem, con la voce reverente come quella di un prete in preghiera.
— Silenzio — invocò a bassa voce Vetro-di-Forca.
Orem alzò gli occhi, e il Cervo chinò lentamente la testa. Il peso delle corna era troppo per qualsiasi collo, ma quel collo lo sopportava. Il Cervo puntò le zampe posteriori e facendosi forza chinò la testa facendo oscillare le corna davanti alla faccia di Orem, finché una singola punta non si fermò immobile come la cima di una montagna proprio dove egli non poteva guardare nient’altro. E Orem guardò, e guardò ancora, guardò più a fondo, e vide.
Che le stelle di un piccolo cielo danzavano attorno al corno. Che lui cadeva verso le stelle, le superava, e la punta del corno era grande come la luna, grande come il mondo. Poi fu il mondo, e Orem non riuscì a respirare mentre cadeva sempre più giù, finché d’improvviso tutto fu immobile e Orem si trovò sospeso sopra la città di Inwit.
La città ribolliva di vita; le barche attraccavano e salpavano dai moli; le guardie marciavano su e giù per le mura come formiche. Ma non era la vita nella città che dava l’impressione di un costante movimento. Poiché sotto gli occhi di Orem, la città cambiava volto, come se il tempo scorresse a ritroso, e fosse un secolo, due secoli nel passato. Le strade mutavano il loro corso; le case tornavano nuove, e comparivano per un attimo come scheletri di impalcature, per essere sostituite da edifici più vecchi e più piccoli. Apparvero sempre più campi coltivati all’interno delle mura, mentre le abitazioni all’esterno diminuirono, e quasi sparirono. D’improvviso il Grande Tempio sparì, e il Piccolo Tempio cambiò tanto che non ci furono più sette cerchi su ogni colonna, poi anche il Piccolo Tempio sparì, e la città prese una forma diversa: la Strada del Re piegava bruscamente verso ovest, e la grande porta della città era Traccia del Cervo, la Porta Occidentale, il Buco.
Poi anche questo passò: le mura della città si assottigliarono rivelando mura più piccole, poi anche queste svanirono e non ci furono più mura, e neppure il castello, a parte il piccolo Castello Vecchio, sulla punta orientale della Collina del Re. Questo rimase stabile per un po’. Poi anche il Castello svanì, e ci fu solo la foresta, e di Inwit non rimase nulla se non poche centinaia di case costruite in cerchi attorno a un singolo santuario. E le case divennero sempre meno, e il santuario più piccolo, a poco a poco, e Orem cadde ancora, finché vide come se fosse sospeso a poche braccia da terra. Non c’era nessun villaggio. Solo la foresta, e una radura con una capanna al centro, e dove c’era stato il santuario, c’era solo un contadino che arava.
Quel contadino non arava come il padre di Orem. Era lui stesso a tirare la lama dell’aratro, e sua moglie la guidava, tracciando un solco poco profondo nella terra. Era un lavoro faticoso, e Orem capì perché il campo fosse così piccolo: non c’era modo di arare una superficie maggiore.
D’improvviso ci fu un movimento ai bordi della radura. Con sollievo di Orem, il tempo stava scorrendo nuovamente in avanti, a velocità normale. Un cervo balzò sui solchi, i suoi zoccoli si piantarono a fondo nel terreno morbido. Era spaventato. Dietro di lui giunsero quattro cacciatori con archi e lance, e cani che abbaiavano furiosamente. Il cervo corse verso il contadino, che si tolse la bardatura dell’aratro e prese la testa del cervo fra le mani, per un momento, poi la lasciò andare. Il cervo non si mosse. Non mostrò timore del contadino, e forse fu per questo che i cacciatori si fermarono, vedendo una tale meraviglia.