Corse senza meta, più spaventato di ciò che aveva fatto che di Vetro-di-Forca stesso. Quando fu giunto sulla Strada dei Ladri, tuttavia, un piano si stava formando nella sua mente. Avrebbe ritrovato Pulce, e gli avrebbe chiesto di aiutarlo a nascondersi. La Regina l’avrebbe cercato fra i maghi, e Vetro-di-Forca non l’avrebbe mai trovato, poiché non poteva usare la magia.
Ciò che non aveva previsto, naturalmente, era il nemico che sempre attendeva gli imprudenti a Inwit. Una squadra di guardie sorvegliava le strade del quartiere. Un’occhiata alla camicia strappata, alla faccia spaventata, e seppero che Orem era loro. Non avevano bisogno di conoscere la sua colpa per sapere che era colpevole. Gli gridarono di fermarsi, gli chiesero di mostrare il visto.
Non aveva il visto con sé; né osava dire loro che era a casa di Vetro-di-Forca. perché l’avrebbero portato da lui per verificarlo, e il mago allora avrebbe potuto vendicarsi come voleva. Così Orem si voltò e corse nelle strade strette e tortuose.
Era più veloce delle guardie, ma quelle erano molte e lui era solo. Dovunque fuggisse, lo aspettavano al varco, e alla fine lo spinsero verso il Santuario abbandonato dell’Albero Spezzato. Poteva vedere le guardie giungere dai due lati della Strada del Santuario. Non c’era via di scampo. Così si appoggiò al basso muro che circondava il Santuario, guardò il ceppo e vide che l’estremità spezzata era esattamente come l’aveva lasciata la moglie del contadino nella visione. Il sogno era vero. Era bello sapere che qualcosa era vero.
Ma cosa significava, in nome del cielo?
17
GABBIE
I cittadini di Inwit i cui documenti non sono in ordine vanno alla Sala delle Facce per essere giudicati. I preti vengono giudicati al tempio. I concessionari di licenze sono multati e tassati nella Sala delle Corporazioni. Ma quelli senza visto vanno alle Gabbie, perché non hanno alcun diritto di essere dentro Inwit. La loro stessa esistenza è un crimine.
Portarono Orem, insieme ad altri criminali, in un carro lungo la Via della Regina, e nel grande vallo fra le mura del Castello. I cavalli facevano fatica a trascinare il pesante carro su per la ripida salita, e le mura tagliavano fuori ogni rumore, perciò tutto quello che i prigionieri potevano sentire nella loro abiezione era lo schioccare delle fruste e il tirare degli animali. Alla Porta Alta i prigionieri ascoltavano le parole di un ufficiale.
Questi enumerava i loro diritti: nessuno.
Enumerava le scelte che avevano: perdita di un orecchio alla prima infrazione, schiavitù o castrazione alla seconda, un’interessante ed esemplare morte alla terza.
E per chiarire meglio il concetto, durante il tragitto verso le Gabbie venivano fatti passare accanto al Pozzo dei Giovenchi. Le autorità facevano in modo che, quando passavano dei nuovi prigionieri, qualche povero criminale che aveva scelto la libertà da eunuco fosse appeso lì coi ferri ai polsi e alle caviglie, i fianchi stretti nella gogna, nudo e in attesa del filo e delle forbici. I giudici della Città Reale preferivano che i loro prigionieri scegliessero la schiavitù, perciò facevano apparire la castrazione quanto mai orribile. In questa maniera la macchina della giustizia si pagava da sé, mediante la vendita di schiavi ai trafficanti che portavano i loro prigionieri a occidente, oltre il mare.
Dopo avergli fatto vedere il Pozzo dei Giovenchi, misero Orem in una delle gabbie. Le gabbie non avevano né pavimenti né arredi, solo sbarre incrociate sopra, sotto e sui quattro lati. Non c’era riparo dal vento e nessuna possibilità di trovare una posizione confortevole. Le gabbie erano troppo piccole per starci in piedi, e sedere significava premere le natiche sulle fredde sbarre. Non ci si poteva inginocchiare perché le sbarre facevano male, e se uno si sdraiava non sapeva dove mettere la testa. Orem cercò ogni possibile posizione, mentre i prigionieri vicini lo osservavano in silenzio.
Alla fine si mise in un angolo, che era il punto meno scomodo, almeno per un po’.
C’erano due piani di gabbie sopra di lui, e niente sotto, ma il terreno era troppo lontano per poterlo toccare, anche se infilava un braccio in mezzo alle sbarre. Era sospeso in aria, inerme e meschino.
— Per quanto tempo ci tengono qui? — chiese Orem all’uomo nella gabbia vicina alla sua. L’uomo si limitò a guardarlo senza dire nulla. — Ho detto: per quanto tempo… — Poi colse uno scintillio negli occhi dell’uomo che lo bloccò. Non era che l’uomo non l’avesse sentito: solo che parlare non gli interessava. Si alzò e venne verso l’angolo dove si trovava Orem. Non diede segno di ciò che intendeva fare, ma Orem era sicuro che preferiva vederlo dall’angolo opposto. L’uomo, cereo e silenzioso, si spostò le mutande e cominciò a orinare verso Orem. Il gettò colpì le sbarre della gabbia e schizzò in giro. Orem si ritirò verso l’angolo più lontano, e per un momento si credette al sicuro, finché non sentì sulla schiena la sensazione calda e fredda dell’orina dell’altro suo opposto, che gli scorreva nelle mutande.
Si girò per scappare, inciampò contro le sbarre e cadde. Il piede gli scivolò nel buco, e cadendo con la gamba impigliata fra le sbarre si storse l’anca. Si era fatto male, e loro continuavano a pisciargli addosso dalle due parti, mentre l’uomo sopra di lui sputava. Nella sua rabbia Orem avrebbe voluto urlare, maledirli; ora più che mai avrebbe desiderato un potere che distruggesse i nemici, in luogo di quello passivo e inutile di un Pozzo.
Finalmente i getti cessarono. Quello sopra di lui che aveva sputato, se ne andò in un angolo e sedette. Solo il vento rimase, gelido, che gli asciugò l’orina sulla pelle e sui capelli; il vento e la puzza. Ben presto il suo disagio fu troppo grande per lasciar posto alla rabbia. L’orina era come il freddo: qualcosa da sopportare con pazienza. Non poteva farci niente, per il momento. Districò la gamba dalle sbarre e si massaggiò l’anca indolenzita. Senza appoggiare il piede della gamba slogata andò in un altro angolo e si sedette, tenendo d’occhio gli altri uomini. Loro non lo guardavano più.
Dopo pochi minuti le guardie vennero a prendere l’uomo sopra di lui. Mossero una impalcatura montata su ruote lungo le gabbie, e la fermarono davanti a quella di Orem. L’uomo non si alzò dal suo angolo. Le guardie salirono lungo una scala e si fermarono di fronte alla porta della gabbia. Non entrarono, non dissero nulla. Si limitarono ad aspettare. L’uomo dentro, le guardie fuori, e Orem non riusciva neppure a capire se si guardassero. Aspettarono a lungo. Poi il vento soffiò più forte per un momento, facendo gelare Orem. Apparentemente dovette anche sussurrare qualcosa al prigioniero di sopra, perché si alzò e andò alla porta e aspettò impassibile mentre le guardie l’aprivano. Gli legarono una catena attorno alle braccia, appena sopra i gomiti, e gliela girarono stretta attorno alla schiena. L’uomo non diede alcun segno di dolore, ma li seguì docile.
Il sole del pomeriggio portò una specie di calore, e Orem rabbrividì, assorbendolo. Sperò che qualsiasi giudizio lo attendesse, arrivasse prima della notte, prima del freddo intenso.
Il cielo si stava arrossando fra le nubi del tramonto, quando un altro uomo venne portato nella cella sopra la sua. Orem osservò impassibile mentre i suoi vicini pisciavano addosso al nuovo venuto. Una buona parte gli cadde addosso, non poté far nulla per evitarla, e con il vento della sera faceva ancora più freddo. Ma questa volta Orem non si rannicchiò. Non si mosse dal suo posto. Si limitò a chiudere gli occhi e a stringere le labbra, aspettando che finisse. L’uomo gridò, e gridò e cercò di correre da un posto all’altro. Non c’era riparo. Ma poiché gridava, continuarono ad attaccarlo. Sputi quando non avevano più orina, e l’uomo al terzo piano di gabbie fece come per defecare. Alla fine Orem non lo sopportò più. Le urla e le imprecazioni del nuovo venuto non facevano che prolungare quella pioggia schifosa, e Orem era stufo. Andò sotto all’uomo, dove questi imprecava contro i suoi tormentatori. L’uomo non lo vide: stava guardando gli uomini silenziosi e privi di espressione che sputavano non appena riuscivano a raccogliere in bocca abbastanza saliva. Orem allungò le mani attraverso le sbarre e tirò con tutte le forze le caviglie dell’uomo. Con un urlo di terrore, l’uomo cadde dritto verso il basso, fermandosi appena in tempo per non schiacciarsi i testicoli contro le sbarre. Orem tenne stretti i suoi piedi.