— Lasciami andare! — gridò quello.
Ma Orem senza una parola gli tenne fermi i piedi. Con l’uomo bloccato, che doveva adoperarsi con tutte le forze per non farsi schiacciare lo scroto contro le sbarre, gli altri trovarono un bersaglio sufficientemente comodo per soddisfarsi. Quando il nuovo venuto pianse per la frustrazione, finalmente smisero, e Orem gli lasciò andare le gambe. Con difficoltà l’uomo si tirò su e districò le gambe dalle sbarre. Poi raggiunse barcollando un angolo, piagnucolando fra sé.
Le gabbie sembravano quasi piene; pareva anzi che non portassero via un prigioniero fino a quando un altro non era pronto a prendere il suo posto, come se le gabbie richiedessero la pienezza della miseria.
Orem non riuscì a dormire; non osava dormire, con quel freddo. Le mani e i piedi gli divennero insensibili. Si alzò e camminò intorno alla propria gabbia, stringendo con le mani le sbarre per non cadere di nuovo, nel buio, usando anche la gamba che gli faceva male per evitare che diventasse troppo fredda. Verso il mattino si alzò la luna, fornendo luce sufficiente per deridere il freddo. E poco dopo il sorgere della luna, le nuvole da ovest coprirono il cielo. Il nuovo venuto aveva smesso di piangere. Orem si chiese se dormisse o se fosse morto, o avesse semplicemente scoperto l’inutilità di piangere. Orem continuava a girare nella sua gabbia. Una volta la mano di un uomo coprì la sua, su una sbarra. Per un momento Orem temette un dolore acuto e improvviso, poi la mano si sollevò e Orem si rese conto che anche il suo vicino si stava muovendo.
Verso l’alba cominciò a nevicare. I fiocchi che gli toccavano la pelle, fitti e rapidi, sembravano punture. Si mise a camminare più in fretta, finché nella debole luce dell’alba vide che gli altri uomini stavano raccogliendo la neve dalle sbarre e la mangiavano. Naturalmente: aveva passato un giorno intero senza acqua, e chissà da quanto tempo quegli uomini erano lì senza mangiare e senza bere. Anche Orem raccolse la neve e si succhiò le dita. L’acqua era fredda sulla sua lingua, ma di un gusto così pulito, una volta sparito il primo sapore di orina, che gli trapassò la gola alla base del cranio.
Cammina, cammina, cerca di tenerti caldo più che puoi. Fra la neve, arrivarono le guardie e presero l’uomo vicino a Orem, e l’uomo dietro di lui. Sempre le guardie si fermavano vicino alla porta, finché il prigioniero non smetteva di girare e veniva da loro. La neve cominciò a cadere più fitta. L’uomo vicino a Orem si fermò e si defecò sulle mani, poi si strofinò le mani calde sulla pancia, con un brivido di sollievo.
Ben presto portarono due nuovi prigionieri al posto dei vecchi. E questa volta Orem si unì agli altri nell’orinare e nello sputare loro addosso. Entrambi erano più furbi di quello sopra di lui. Una volta superata la sorpresa, fecero come aveva fatto Orem: sopportarono. E rapidamente entrarono nella routine delle gabbie: mangiavano la neve che si accumulava in uno strato sottile sulle sbarre, giravano in cerchio per tenersi caldi, sedendo per qualche momento quando camminare diventava impossibile. Quando un uomo rimaneva seduto troppo a lungo e cominciava a sonnecchiare, gli altri gli sputavano in faccia per svegliarlo. Non una parola. Non una voce. Non abbiamo voci, qui, ma siamo ancora uomini: cerchiamo di tenerci vivi l’un l’altro.
L’uomo sopra di lui, tuttavia, rimaneva fermo, e alla fine la neve cominciò ad accumularsi sul suo corpo freddo. Quando fu chiaro che era morto, Orem allungò una mano attraverso le sbarre e raccolse un po’ di neve dal corpo dell’uomo, e se ne riempì la bocca. Gli gelò i denti, ma si sciolse in un sorso di acqua. Quando ebbe bevuto a sufficienza ne porse una manciata all’uomo vicino, che senza una parola la prese, si riempì la bocca, e riprese a camminare. A ognuno dei suoi vicini Orem diede una manciata di neve dal cadavere sovrastante, e quando loro ebbero bevuto, presero le manciate e le passarono ai prigionieri successivi. La neve si accumulò sotto le gabbie. Un piede a mezzogiorno, e a metà pomeriggio era arrivata al livello delle gabbie. Adesso non c’era più bisogno di raccogliere neve dal cadavere dell’uomo: ce n’era in abbondanza a portata di quelli del piano più basso. Orem vide che la sua pelle stava assumendo una sfumatura blu. Quanto ci voleva ancora prima che le dita si congelassero per sempre? Quanto, prima che iniziasse la cancrena? Quanto, prima che semplicemente fosse troppo stanco? Non dormiva dalla mattina del giorno precedente, e adesso era di nuovo quasi sera. Vennero a prendere il cadavere verso mezzanotte, e durante la notte le guardie presero anche l’ultimo degli uomini che avevano pisciato su Orem quando era arrivato. Gira, gira, stai caldo, stai caldo. Orem cantò fra sé, pregò perfino, per quanto futile fosse per uno che aveva rinunciato a Dio, pregò e si chiese se la visione del Cervo non fosse stata una profezia di morte.
Durante la notte la neve cessò di cadere, le nuvole scivolarono via dal cielo, e cominciò il vero freddo. Adesso morirò, pensò Orem.
Per un po’ si sedette in un angolo e tremò violentemente, mentre il vento lo schiaffeggiava con le sue mani di ghiaccio. Furono solo gli sputi che gli colpirono la faccia e le spalle a trattenerlo dal sonno incombente. Ebbe un ultimo, terribile tremito, e balzò in piedi, afferrò le sbarre del soffitto e si appese con tutte le sue forze, incurante del torpore alle mani. Vivrò, decise mentre si tirava lentamente su, e si abbassava. Che i figli delle guardie muoiano bruciati davanti ai loro occhi. Stringendo i denti, sollevò in alto i piedi e li agganciò alle sbarre del soffitto. Che le mogli delle guardie possano essere violentate da cento lebbrosi. Con piccoli mugugni di dolore si costrinse ad alzarsi, abbassarsi, alzarsi, abbassarsi.
Quando finalmente giunse l’alba. Orem stava ancora girando in tondo nella sua gabbia. Molti giacevano immobili: cumuli neri nella luce del sole, che gettavano ombre immobili sulla neve sotto le gabbie. Una ragnatela con le sue prede in attesa di essere divorate. Forse la metà si agitavano ancora nella tela.
Come se volessero deliberatamente torturarlo, le guardie presero altri due uomini prima di venire finalmente per lui. Come li odiò per essere entrati prima di lui. Ma non disse nulla, deliberatamente non mostrò alcun segno d’ira. Si limitò a girare in cerchio, ad appendersi al soffitto e a tirarsi su e giù, con mani rigide come zampe.
Eppure, quando vennero, Orem non corse alla porta, non ebbe fretta. Il semplice cambiamento nella routine della sopravvivenza era troppo difficile; dovette fare uno sforzo, dovette pensarci per smettere di muoversi secondo lo schema stabilito. Poi finalmente andò alla porta, e aspettò. La catena era di freddo acciaio, ma gli sembrò calda quando gliela strinsero. Un po’ di pelle rimase incastrata nella cerniera del lucchetto, ma Orem era troppo intorpidito per sentire dolore, mentre la pelle veniva strappata, e un po’ di sangue gli scendeva lungo il braccio e si gelava.