Il processo venne tenuto nella Casa del Carbone. Le pareti erano grigie e sporche a causa della polvere nera, e nell’aria soffocante le facce delle guardie erano rigate di grigio per il sudore. Il calore era quasi più di quanto Orem potesse sopportare, e il sollievo gli fece tremare le gambe al punto che le guardie dovettero sostenerlo. La sala era illuminata solo da piccole finestre poste in alto e da poche torce lungo le pareti. Per Orem era lo stesso: guardava solo il pavimento, che girava sotto i suoi piedi.
Le guardie lo lasciarono cadere in mezzo alla stanza. Orem rimase steso sul nudo pavimento, felice, e ascoltò la voce del magistrato che intonava: — Crimine?
— Senza visto, e nessuno che l’abbia reclamato.
— Sesso e età?
— Maschio, giovane di corno.
— Prigioniero, cos’hai da dire?
Gli ci volle un momento per capire che l’uomo si rivolgeva a lui, e un altro momento per ricordarsi come si faceva a parlare. Non tagliatemi, avrebbe voluto dire. Ho ucciso le donne del mago, e merito qualsiasi cosa mi facciate, quasi disse.
— Sono un ragazzo di campagna, vengo da nord, e ho perso il visto — disse alla fine.
Una guardia lo mise in ginocchio e gli fece girare la testa per mostrare la guancia al magistrato. — È guarita da un mese almeno — disse la guardia.
— Come hai fatto a non farti prendere dalle guardie per tutto questo tempo? — chiese un magistrato.
Orem li guardò per la prima volta, adesso che la guardia lo teneva sollevato. C’erano tre magistrati, su un’alta pedana, con una rete di ferro fra loro e Orem. Indossavano maschere, terribili maschere bianche e verdi come la putrefazione, e lo guardavano implacabili come Dio, perché le maschere non sbattono le palpebre. — Sono stato attento — disse Orem.
— L’abbiamo preso all’aperto, con la camicia strappata e quasi nudo, in mezzo alla neve — disse la guardia. — I ragazzi attenti non fanno così.
— Portatelo più vicino — disse uno dei magistrati. Dal momento che nessuna delle teste si mosse, non c’era modo di sapere quale avesse parlato. Mentre la guardia lo portava barcollante verso la pedana, la voce di un altro magistrato disse: — Il Buco, senza dubbio, e un falso visto. Chi ti ha dato il visto, ragazzo? O vuoi che i testicoli ti vengano maciullati e serviti col budino?
Non fu coraggio quello di Orem: il coraggio era qualcosa di incomprensibile per lui dopo due notti nella gabbia aperta. Non disse tutto quello che sapeva sul passaggio attraverso il Buco perché in quel momento uno dei magistrati emise un piccolo grido e disse: — Guardate la sua faccia.
Uno di loro fece un cenno alle guardie, che fecero passare Orem attraverso una porticina nella gabbia e lo portarono di fronte al tavolo dei magistrati. Lasciarono che si appoggiasse al tavolo mentre le facce mascherate lo guardavano fisse. Orem adesso era abbastanza vicino da vedere il bianco degli occhi dentro le maschere, e le labbra e i denti e le lingue dei magistrati.
— Come ti sei fatto quella cicatrice sulla gola? — chiese un magistrato.
Orem si era dimenticato del segno lasciatogli dalla visione. Come rispondere? Solo la verità gli venne in mente, solo la verità poteva andar bene. — Sono il figlio di un contadino. Me la sono tagliata da bambino sulla lama di un aratro.
I tre lo guardarono in silenzio. Poi quello in mezzo annuì, e anche gli altri annuirono. — Il sogno della Regina, senz’altro — disse uno.
— E viene dalle gabbie — disse un altro.
— Come ti chiami, ragazzo?
Orem ci pensò un momento, poi ricordò. — Orem.
— Orem cosa?
Non riusciva a ricordare. Era stato chiamato Fianchi-Magri? O Banningside? O ap Avonap? Quale dei tre?
— Non è in condizione di rispondere.
— Allora mettetecelo, nelle condizioni.
— E adesso cosa facciamo? Lei ha detto di non fargli del male, e guardate.
— Quanto si ricorderà?
— Troppo.
— Come facevamo a saperlo? È stato arrestato ancora prima che ce lo dicesse.
Quello in mezzo prese una decisione. — Non sospendete le ricerche. Portatelo da qualche parte a riposare. Solo quando sarà in condizioni migliori sospenderemo le ricerche.
— Sciocco. Lei lo sa già.
— E a che le serve, se non lo rimettiamo in sesto? Coperte, brodo, e un fuoco acceso. Sbrigatevi! E fate entrare il prossimo, presto, presto!
Orem venne riportato via, ma questa volta con maniere più gentili; quando giunsero in una piccola stanza con un fuoco acceso gli tolsero le catene, e lo fecero sdraiare su un materasso di piume in un angolo, e lo coprirono. Si era addormentato prima che uscissero dalla stanza e si svegliò a malapena per bere la tazza di brodo che gli portarono, e di nuovo per orinare nel pitale. Alla fine si svegliò da solo, strisciò fuori dalla coperta perché sudava e la stoffa di lana lo pungeva. Dove la pelle gli era stata strappata dal lucchetto, la ferita gli bruciava; aveva tutte le giunture indolenzite, era scosso da violenti brividi, e infine vomitò il brodo sui mattoni del focolare.
Allora si sentì meglio, strisciò in un angolo, appoggiò la testa al muro e osservò il fuoco attraverso gli occhi semichiusi. La scena con i magistrati era davanti ai suoi occhi come un sogno da cui non ci ci è ancora del tutto svegliati. Lei aveva mandato le guardie a cercarlo. Lei adesso poteva vederlo. Lei aveva visto la sua faccia in sogno. Lei poteva essere solo la Regina, e adesso Orem sapeva che avrebbe dovuto pagare un prezzo per averla sfidata, poche notti prima. Tuttavia, dopo quello che aveva passato, non riusciva ad avere paura. Cosa poteva fargli di più? Non era ancora tornato interamente nel suo corpo; i sensi non erano ancora del tutto suoi. Che lo torturasse pure, che lo uccidesse, per lui era lo stesso.
Arrivarono dei servi con una tinozza, lo spogliarono e lo misero nell’acqua calda. Uno portò via i suoi vestiti; altri spazzarono e pulirono il pavimento, mentre gli fregavano bene la schiena e gli insaponavano i capelli e glieli sciacquavano come lo straccio che usavano per il pavimento. L’orina secca e le croste di sputi delle gabbie si sciolsero nell’acqua; portarono via la tinozza e vennero con un’altra; lo lavarono di nuovo, poi lo asciugarono davanti al fuoco, gli tagliarono i capelli e li pettinarono, lo vestirono con una semplice camicia allacciata con una catena cesellata che brillava come oro. Come oro, pensò Orem, e non gli venne in mente che potesse essere oro. Non sarebbe stato in grado di distinguerlo da un’imitazione, in ogni caso.
I magistrati vennero a vederlo di nuovo, per essere sicuri. A Orem non importava cosa decidessero. Era sufficiente aver sentito la stoffa morbida sulla pelle lavata e dolorante, aver sentito il calore del fuoco, aver toccato i mattoni caldi con ogni dito, e aver sentito ognuno di essi formicolare di vita, aver provato i suoi piedi e averli trovati vivi e caldi, ubbidienti ai suoi ordini.
Apparentemente era l’uomo che avevano cercato. — Sì. Sì, così può andare. Abbiamo fatto del nostro meglio. — Si scusarono bruscamente con lui. — Un terribile errore, Orem, ragazzo mio. Un errore può capitare a tutti, no? Non protesterai, vero?
Protestare? Di cosa doveva protestare? — Basta che mi teniate al caldo — disse. — Tenetemi caldo e pulito e asciutto, e non avrò niente di cui lamentarmi. — Ricadde addormentato prima che i magistrati uscissero.
18
LA DANZA DELLA DISCESA
Lo portarono a palazzo su una carrozza con dodici ruote tirata da undici cavalli, ma non gli venne in mente di contare. Benché non si fosse ancora ripreso dalle gabbie, rimase abbagliato dalle meraviglie del palazzo, e guardò a occhi spalancati, attraverso i finestrini, le pareti coperte di mosaici, i minareti dorati, i tetti di turchese, le sculture dai vivaci colori che si alzavano a profusione ai due lati del viale di pietra bianca. Le storie che raccontavano erano sconosciute a Orem, ma riconobbe la perfezione di quelle opere delle mani dell’uomo.