Per una settimana la Regina Bella lo presentò come suo marito a tutte le centinaia di visitatori e alle migliaia di cortigiani del palazzo. Non parlò mai di lui senza una battuta volgare o ironica, senza qualche sarcasmo che faceva ridacchiare i cortigiani dietro le loro mani delicate. La sua magrezza, la sua gioventù, la sua supposta stupidità, la sua genuina innocenza, tutto era causa di riso.
E tuttavia Orem era saggio, e diede retta ai consigli dei Compagni della Regina: sopportò con pazienza, rise perfino, e ben presto, benché tutti lo disprezzassero, tutti si abituarono a lui e ad accettare il suo ruolo. Finalmente aveva il suo nome e il suo posto: Piccolo Re, e bersaglio di scherzi.
Dopo la prima settimana, la Regina non venne più con lui per prenderlo in giro. Altri, in un caso simile, si sarebbero nascosti, si sarebbero tenuti lontani dai balli e dalle cene. Ma Orem non lo fece. Andò, imparando ad avere un portamento ancora più regale. Questo suscitò molte risa fra i bellimbusti, che pensavano volesse rivaleggiare con loro. Non si accorsero mai che lui, in effetti, era ciò che loro fingevano di essere. Andò sostenendo in pieno il ruolo che la Regina gli aveva assegnato. Parte del suo ruolo era quello del bifolco e dello stupido. Lo imparò subito, e lo recitò bene.
Sei settimane dopo il matrimonio, Orem presiedette un piccolo banchetto per i cortigiani residenti nel palazzo. Alla sua destra sedeva Donnola Bocca-di-Verità; alla sua sinistra Coniglio; c’è un ordine in queste cose. Gli ospiti erano perfettamente intenzionati a prendersi gioco di lui, naturalmente. Non appena la prima portata fu servita, una donna gridò: — Mio signore Piccolo Re, chiedo il vostro giudizio. Mio marito, quello con la mano sulla coscia di Belfeva, mi è stato gravemente infedele. — E raccontò a tutti la storia sconvolgente (sconvolgente per Orem) dell’infedeltà del marito con gli animali da cortile. La raccontò con consumata arguzia: soltanto Orem, fra tutti i presenti, non conosceva le convenzioni che regolavano quelle piccanti spiritosaggini. Arrossì, e la sua sorpresa nell’udire un racconto del genere lasciò il posto all’ira per il comportamento del marito; il quale rideva insieme a tutti gli altri. Rideva! Quella gente non aveva alcun senso del bene e del male, apparentemente.
Allora Donnola gli sussurrò, tenendo le labbra squamose e storte vicino al suo orecchio: — Non prenderla sul serio, Piccolo Re. È una bugia, per ridere.
All’inizio questo non servì a placare l’ira di Orem. Dopo tutto, una bugia era una bugia, fosse detta per ridere o no. Ma adesso le risate assumevano un significato diverso, e Orem cominciò a prestare attenzione non tanto agli immaginari peccati del marito, quanto all’umorismo della moglie. Senza dubbio era brava. Era la sua abilità narrativa a provocare le risate, insieme alla supposta goffaggine del marito. Quando ebbe finito, lo guardò implorante e chiese: — Dunque ditemi, mio signore Piccolo Re, comandatemi… devo riprenderlo nel mio letto, o tagliarne via sei pollici buoni, la prossima volta che mi viene vicino?
— Questa sarebbe una punizione troppo dura, Signora — rispose Orem. — Come potete tagliare sei da tre, e sperare che rimanga qualcosa?
Era più di quanto i cortigiani avessero sperato. L’accento rozzo del contadino, sì; la vocetta acuta da adolescente, anche; la faccia innocente e ingenua, erano perfette. Ma che adesso riuscisse a pareggiare le sue oscenità… La serata prometteva di essere divertente. La Regina aveva scelto bene il suo villico consorte.
Il marito così maltrattato gridò: — Vi imploro, mio signore Piccolo Re! Non costringetemi ad abbandonare tutte le mie relazioni. Le galline non danno molta soddisfazione, e la produzione di uova è calata parecchio. Delle mucche posso fare a meno. Ma la scrofa è la mia vita, il mio cuore, il mio amore!
— Come posso giudicare da qui? — chiese Orem. — Devo guardarvi negli occhi. Che si sieda qualcun altro qui, all’estremità del tavolo. Niente di personale, capite — disse a Coniglio e a Donnola. Avvertì la preoccupazione di Donnola per lui: desiderava essergli vicino per guidarlo. Fra il chiasso della conversazione si chinò verso di lei e mormorò: — Adesso so che ridono per piacevoli sconcezze.
Prese il piatto e le posate d’argento, strinse il tovagliolo coi denti, e marciò fino al centro del tavolo, sloggiando un dandy particolarmente vistoso per sistemarsi fra due delle più esotiche dame della corte. Il marito e la moglie erano dall’altra parte del tavolo, ma spostati di parecchi posti, da una parte e dall’altra. Li guardò tutti e due, poi rise. — Signora, devo lodare entrambi per la vostra umiltà. Voi, per avere ammesso che la vostra rivale era una scrofa, e lui per aver ammesso che nessuna femmina più bella sarà il suo amore. Con tale umiltà, vi trovo perfettamente adatti l’una all’altro. Dovete rimanere insieme: un simile candore merita solo il suo uguale. — Gli altri ospiti risero, tanto per la sua parlata da ragazzino di campagna, quanto per la sua arguzia… ma niente di più. Avrebbe fatto la sua strada, sopportando quello che doveva sopportare.
Ma la dama di singolare bellezza, seduta proprio di fronte a lui, sorrise soltanto, e nei suoi occhi c’era una punta di rimprovero, perfino di pietà. — Non dovreste essere a capotavola? — chiese.
— Dovunque mi trovi, quello è il capo del tavolo — rispose Orem. Se tu l’avessi detto, Palicrovol, sarebbe stato un rimprovero, e gli astanti avrebbero tremato. Ma con la sua voce, e con il suo fare schietto, le parole erano ridicole; e anche se non lo fossero state, era tale la predisposizione a ridere che si sarebbero divertiti lo stesso.
C’era un uomo, tuttavia, che non era divertito, o almeno non non ne dava segno. Piuttosto giovane anche lui, e benvoluto dalle signore perché era scuro di capelli, malinconico, forte. Il tipo di uomo che la gente pensa sempre faccia la parte dello stallone, e perciò gli perdona i modi da riccio. Si chiamava Timias. Era il tipo di uomo che, come i fiori, sbocciano una volta sola, con le spine, e presto appassiscono, assumendo poi qualche ruolo di minor conto che consenta loro di frequentare come fantasmi i luoghi delle loro conquiste. E tuttavia aveva una disposizione alla verità che faceva parte del suo fascino, e qualche indizio che potesse avere una carriera più romantica, e quindi più breve, rispetto ad altri come lui. Uno poteva supporre, malignamente, che fosse invidioso del ragazzo che aveva dormito con la Regina. Ma Orem vide qualcos’altro in lui. Un altro dei doni non cantati di Orem, questo: vedere in una persona quello che nessun altro riusciva a vedere.
Timias era seduto diagonalmente di fronte al Piccolo Re. La risata si spense, e le signore vicino a lui cominciarono a pavoneggiarsi per l’attenzione che il Piccolo Re dedicava loro: dopo tutto, sciocco o no, era l’unico Re di Inwit. Orem fece alcuni commenti sciocchi circa il fatto che le signore sarebbero state molto più belle senza pitturarsi la faccia… dopo tutto, disse, le ragazze di campagna se la cavavano benissimo senza.
— E cosa fanno per essere attraenti? — chiese una.
— Si lavano — disse Orem. — E senza pittura, non sono scivolose come voi signore… quando uno le stringe, non scivolano via! — Come risero. Era un numero troppo bello per lasciarlo cadere. Orem chiese un catino d’acqua, e diede una bella lavata alla faccia di una signora… non quella vicino a lui, perché vide che era in realtà piuttosto bruttina, e la pittura aveva compiuto un miracolo di estetica. Invece lavò la faccia della dama seduta di fronte a lui, che ci guadagnò, perché aveva dei bei lineamenti. E poi l’aveva criticato, anche se velatamente, e perciò gli diede una certa soddisfazione toglierle la pittura. Chi notò il tatto e la gentilezza di Orem in un caso, e la sua piccola soddisfazione nell’altro? Risero soltanto, perché era divertente vederlo prendersi gioco di tradizioni vecchie di secoli e mode vecchie di una settimana. Che pagliaccio. Che zoticone. Che ignorante. Delizioso.