Fecero il giro dei giardini, infastidendo i giardinieri con le loro chiacchiere; visitarono le botteghe degli artisti dove antiche opere erano restaurate e opere nuove venivano fabbricate; chiesero ai poeti nel Parco degli Stagni di leggere i loro versi; ammirarono e cavalcarono i cavalli delle Stalle della Regina; ispezionarono anche l’armeria, perché, dopo tutto, il Piccolo Re era formalmente il comandante dell’esercito.
Ma sempre Orem aveva in mente un’altra visita. Sembrò un capriccio, una mattina quando si riunirono come sempre nel suo appartamento per fare i piani della giornata. — Perché non la Casa del Carbone, dove giudicano i criminali?
Neppure a Belfeva sfuggì che il Piccolo Re era stato preso da quella corte per sposare la Regina. Ma perché non andarci, dopo tutto? Se il Piccolo Re desiderava ricordare quanto era stato in basso, in maniera da apprezzare meglio la sua posizione attuale, chi erano loro per obiettare? Così lasciarono il palazzo, come al solito per l’entrata posteriore che dava sulla Via delle Cucine, e raggiunsero a piedi la Casa del Carbone, dove i giudici mascherati passavano le loro giornate decidendo quali disgraziati dovessero essere smembrati e quali semplicemente uccisi.
Donnola Bocca-di-Verità, sapendo quale scompiglio avrebbe potuto causare l’arrivo non annunciato del Piccolo Re, disse a un servitore di andare avanti e di preavvertire i giudici del loro arrivo. Naturalmente tutti finsero di essere sorpresi; naturalmente la finzione non fu molto convincente. Orem aveva già visto il posto da un punto di vista tale che una messinscena non poteva ingannarlo. Eppure non era vendicativo. Evitò di rammentare loro in quali circostanze si erano incontrati in precedenza. Rimase anzi piuttosto distaccato, mostrando scarso interesse per la corte medesima. Non era per questo che era venuto. Erano le gabbie quello che voleva vedere.
La loro guida temporeggiò. — Criminali comuni — disse. — Perché vederli?
Quasi subito, il silenzio che seguì la sua frase gli ricordò che il Piccolo Re era stato uno di questi criminali. Le guardie li condussero fuori. Cercarono di non far passare il Piccolo Re accanto al Pozzo dei Giovenchi, ma lui conosceva la strada. Arrivarono in un momento inopportuno: il chirurgo stava preparando i suoi arnesi per l’operazione. Una nuova vittima era pronta, e così l’uomo in catene dovette essere spedito via.
— Fra tutti i servizi all’interno delle mura del palazzo, penso che questo sia il più realistico — disse Orem.
— Cosa gli faranno? — chiese Belfeva. Non che le fosse stato tenuto segreto; le grandi case semplicemente non parlavano mai della crudeltà che rendeva la città un luogo sicuro per loro.
— Ne faranno un giovenco — disse Orem. Non pensò che lei forse non conosceva la differenza fra un toro e un giovenco.
Fu Donnola a spiegarglielo. Belfeva voltò la testa, inorridita.
Nel pozzo il chirurgo aspettava, chiedendosi cosa si aspettassero da lui i visitatori. Orem non poté soddisfare i suoi dubbi. Lui stesso non lo sapeva. La vittima aveva fatto la sua scelta: meglio la castrazione che la schiavitù. A meno che Orem non intendesse cambiare la legge, cosa poteva fare se non accettare la decisione dell’uomo? E cambiare la legge era al di là della sua portata.
Non poteva apportare cambiamenti durevoli: solo piccole alterazioni che non rivoluzionassero il funzionamento di Inwit, che non sarebbero state notate dalla Regina.
Alla fine Orem si voltò, senza dire nulla. Il chirurgo, a questo punto, non perse tempo. Si erano allontanati di poco dal Pozzo dei Giovenchi, quando sentirono le grida pietose dell’uomo.
Le gabbie erano le stesse di una volta, tranne che adesso era primavera. I prigionieri non gelavano, ma vivevano fra le mosche e la puzza dei loro escrementi, che si accumulavano sul terreno sottostante.
Quelli più in alto, come sempre, erano i più fortunati, perché le mosche lì non erano così fitte. Era evidente che molti dei prigionieri erano ammalati.
— Questo è appena arrivato — disse Orem a bassa voce, mentre passavano accanto alle gabbie. — E questo è qui da giorni. Morirà prima del processo. — Non gli chiesero come lo sapesse. Lo sapeva. Non mostrò alcun sentimento ai suoi compagni, ma essi sentirono ciò che c’era dietro il suo silenzio, sapevano che quel posto aveva spezzato qualcosa dentro di lui, e aveva creato qualcos’altro, qualcosa che l’aveva trasformato dal contadino che anche la Regina credeva che fosse. Donnola gli prese la mano. Lui la lasciò fare, ma non diede segno che gli importasse, e dopo poco lei lo lasciò. Lei non se la prese; era abbastanza vedere qualcosa che la Regina non vedeva. C’era della speranza in questo.
Su e giù lungo le file, su e giù, come se ciascun prigioniero non fosse identico agli altri. Alla fine Belfeva si sentì nauseata, e rimase indietro, e Timias rimproverò il Piccolo Re. — Non ne abbiamo visto abbastanza? — chiese. — Perché ci hai portato qui?
Orem non aveva alcuna risposta da dargli. Non aveva fatto la stessa domanda a Pulce dopo la morte del ragazzo alla fossa dei serpenti? Ti ho portato qui perché c’erano due ore vuote. Ti ho portato qui per capire la Città della Regina com’è veramente, non come ti sembra che sia. Ti ho portato qui perché fra la ragnatela di ombre delle gabbie, degli estranei mi hanno salvato la vita. — Mi hanno sputato addosso per svegliarmi nella neve.
In quel momento un prigioniero del secondo livello gridò, afferrandosi alle sbarre.
— Orem! Ragazzo, ricordati di me, ricordati di me! Il favore, ragazzo!
Immediatamente le guardie si frapposero fra Orem e la gabbia.
— Zitto, lassù! — gridò uno, e parecchi arcieri tesero gli archi per riportare rapidamente il silenzio.
Orem riconobbe l’uomo prima che potesse decidere se voleva riconoscerlo o no. — Braisy — disse.
Fu sufficiente per fermare gli arcieri. Il comandante delle guardie venne dal Piccolo Re a spiegare.
— È un normale imbroglione. Non solo: fa passare illegalmente la gente dentro e fuori dalla città. Siamo riusciti finalmente a prenderlo dentro le mura, senza visto. È la morte sicura per lui, mio signore Piccolo Re.
Hai mai ascoltato, Palicrovol, la supplica imbarazzante di qualcuno verso cui hai un debito? Sapendo che l’indecisione di un momento ti libererebbe dalla sua richiesta? Ma non dal debito, no, perché c’è una sola liberazione dal debito. Orem accecò la Vista della Regina. — Liberatelo — disse a bassa voce.
La guardia arrossì. — Mio signore Piccolo Re, non posso.
— Io ti confesso — disse Orem — di aver preso parte ai crimini di quest’uomo, e insisto che è tuo dovere punirmi esattamente come punite lui. Aprimi immediatamente una gabbia.
— Ma voi siete il… il Piccolo…
— Liberalo — ripeté Orem.
Timias si fece avanti e parlò al comandante delle guardie. — Hai sentito cosa ha detto. Se a lei importasse, gli sarebbe stato permesso dirlo? Se le importasse, ti sarebbe permesso farlo? Ma ti assicuro che se non lo farai, allora a qualcuno importerà.
Così Timias divenne cospiratore del Piccolo Re in mille azioni di correzione della crudele giustizia di Inwit. La ragione di Orem per lavorare contro le leggi è evidente: lui stesso era stato una vittima di quelle leggi. Timias, tuttavia, per tutta la sua vita era stato protetto da quelle leggi. Manteneva le sue ricchezze solo perché le guardie terrorizzavano i poveri di Inwit fino al punto di impedire loro di togliergliele. Perché dunque Timias aiutava a disfare ciò che lo rendeva sicuro? Perché Timias non era un sicofante, come tu l’hai chiamato. Timias era una cosa rara: un uomo che può veramente soffrire per i mali che non ha mai subito.