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George disse: «Io sono contrario per principio. Gli inglesi sono l’unico popolo al mondo che ne vada matto. Perché sono troppo maledettamente pigri per prendersi il disturbo di badare ai propri figli.»

Si era ripreso, ma parlava a voce molto alta.

«C’è qualcosa di vero in ciò che afferma,» fece Selby, in tono conciliante.

Poco dopo George se ne andò, con la scusa di andare a dare un’occhiata alla caldaia. Si capiva che era ancora infuriato con Selby, e probabilmente anche con se stesso. No, pensò Selby. Nonostante la provocazione, aveva fatto male a lasciarsi andare. C’erano dei doveri nei confronti dei fratelli più deboli, se non altro per poter stare tranquilli. Si avvicinò allo scaffale, ma trovò pochi libri interessanti. Stava sfogliando un’opera di oftalmologia, in francese, e si chiedeva come mai fosse finito lì quando si aprì la porta della sala da pranzo. Si voltò e vide Diana.

«Bene,» disse. «Credevo che foste tutti occupati a giocare a Monopoli.»

«Sono stata eliminata. Cercavo qualcuno con cui parlare.»

E dove esisteva un libro, si chiese Selby, che fosse attraente anche solo una millesima parte di una ragazza giovane, graziosa e disponibile? Le rispose, con calore:

«Non andare oltre. Lo hai trovato.»

Diana sorrise e si avvicinò alla porta-finestra. «È molto più chiaro,» disse. «Si vede quasi il sole. Non possiamo uscire?»

Selby le andò accanto, aspirando con piacere il suo profumo.

«E perché no? Comunque, solo sulla terrazza. Ma faremmo meglio a metterci addosso qualcosa di pesante. Credo che fuori sia più freddo di quel che sembra.»

Indossarono i cappotti e uscirono sulla terrazza. Era freddo, ma un po’ meno di prima. Si appoggiarono alla balaustrata, con le braccia che quasi si toccavano, e guardarono lontano. Non c’era ancora molto da vedere: la neve davanti alla casa, il mucchio di legna e poi i capanni. Un venticinque metri di visibilità, forse. E la nebbia era a banchi… turbinava, si addensava nello spazio sgombro davanti a loro, si disperdeva lentamente. Era troppo rischioso per far atterrare un elicottero, soprattutto in montagna. Ma si stava schiarendo. Tutto intorno a loro c’era una luminosità perlacea, come se fossero al centro di un enorme uovo ghiacciato.

«È piacevole uscire,» disse Diana. «Detesto restare chiusa in casa troppo a lungo.»

«Sì,» disse Selby. «Sono d’accordo.»

«O peggio ancora, star chiusa in un appartamento. Io li odio. Anche tu abiti in un appartamento, Selby?»

Lui annuì. «Un posto molto tetro, dalle parti di Cromnwell Road. Ma abbiamo una casetta nel Kent, dove ci rifugiamo per i week-end.»

«Nel Kent! È meraviglioso! Da che parte?»

«Vicino al confine con il Sussex. Non lontano da Hawkhurst.»

«Sì, meraviglioso! Specialmente di primavera.»

Diana parlava con entusiasmo, e con un piccolo, giusto tocco di nostalgia. E a questo punto, ovviamente, sarebbe stato giusto dirle che sarebbe dovuta andare da loro, qualche week-end. No, piccola, pensò Selby. I miei progetti su di te non comprendono dei week-end al cottage, con o senza Elizabeth intorno. In campagna, magari, ma da un’altra parte. Magari nel Suffolk. C’era quell’incantevole locanda sul fiume, e la pianura, pensava lui, di solito tendeva a mettere in risalto la vivacità delle ragazze.

«Abbastanza piacevole,» ammise. Agitò le braccia in direzione del punto in cui, per un attimo, era quasi apparso il disco del sole. «Se fossi un tipo religioso, credo che mi dedicherei all’eliolatria.»

Diana lo fissò ridendo. «Elio… che?»

«Culto del sole. Hai visto il cartello fuori dallo chalet, sulla strada per Nidenhaut?»

«No. Che cartello?»

«In francese, e ricavato da un grosso pezzo di legno. C’era scritto, in una traduzione approssimativa: ‘Il sole è la patria… seguire l’uno è servire l’altra.’»

«E cosa significa?»

Selby sorrise. «Non lo so bene. Però mi piace.»

Di colpo, inaspettatamente, Diana si animò. Gli occhi azzurri lo fissarono solennemente.

«Prendi mai qualcosa sul serio, Selby?»

«Molte cose.»

«Quali?»

«Le piccole cose. Quelle grandi le lascio agli individui dalle menti più profonde e dallo spirito più elevato. Perché, tu prendi sul serio la vita?»

Diana fece, mestamente: «Purtroppo no. Mi sforzo di farlo, di tanto in tanto.»

«Non provartici. Questa è la bellezza della vita: che ognuno agisca in conformità con la propria natura e i propri interessi.»

«Chi l’ha detto, Shakespeare?»

«No, anche se avrebbe potuto dirlo. Un mio ex collega usò questa citazione per concludere un libro molto sensato scritto da lui, ma ho dimenticato dove l’aveva presa.»

Vi fu una pausa, mentre Diana rifletteva.

«Sì. Mi pare sensato. Ma non sempre uno sa quale deve essere la sua natura. O il suo interesse.» Gli lanciò una rapida occhiata. «La gente ha sempre qualche momento di follia.»

Probabilmente alludeva all’altra notte, al bacio interrotto. Interrotto, ricordò Selby con un lieve brivido interiore di disgusto, per lui, non per lei. Dopo non ne avevano più parlato. Si chiese se doveva parlarle della faccia che aveva scorto, lì in pieno giorno, mentre la nebbia si diradava attorno a loro, ma decise di non farne nulla. Non voleva collegare i baci a cose tanto spiacevoli.

«I momenti di follia non sono niente di male,» disse. «Purché al tempo e nel luogo opportuno.»

Diana fece un movimento inquieto e le loro braccia si toccarono. Poi si raddrizzò, con le mani inguantate strette sulla ringhiera.

«Eccoci bloccati qui. Ci vorrà molto prima che possiamo andarcene, secondo te?»

«Probabilmente domani.»

«Ne sei convinto?»

«Sarai di nuovo alla tua macchina da scrivere tra meno di quarantott’ore.»

«No, non è a questo che penso.»

«Allora guarda più avanti. Le passeggiate nel parco, a contare i fiori di croco. E poi, solo pochi mesi prima che tu cominci a fare la coda per i concerti. Dopotutto…»

«Guarda!»

Diana stava fissando la nebbia. Selby guardò nella stessa direzione, ma non vide nulla.

«Che cos’era?»

«Mi è parso di vedere qualcosa muoversi. Sembrava…»

«Cosa sembrava?»

«Andy.»

«Può darsi.» Selby ascoltò. «Niente voci. Per il momento stanno zitti. Forse, però, si aggirarono qui intorno. Lui cosa faceva?»

«Mi pare che non facesse niente. Era là, fermo.»

«Nessun altro?»

«Non ho visto nessuno.» Diana rabbrividì. «Ho avuto un incubo, stanotte, su tutto questo.»

«È una situazione da incubi, infatti. Ma è quasi finita.»

«Ero a casa,» disse lei. «Di notte, sola nell’appartamento. Sylvia era fuori, e io stavo rammendando qualcosa. Poi si è aperta la porta ed è entrata Ruth Deeping. In un primo momento non mi sono spaventata, perché ricordavo solo la prima parte della vacanza, e ho pensato che avesse trovato il mio indirizzo e fosse venuta a farmi visita. Non mi sono spaventata neanche quando è entrato Leonard. Li ho invitati a sedere e ho detto che avrei preparato il tè. Ma quando sono andata in cucina, c’era il bambino, Andy, morto, disteso sul tavolo, con le casse intorno. E allora ho ricordato, e avrei voluto scappare via, ma per scappare dovevo passare dalla stanza dove c’erano gli altri due…» Rise, brevemente. «Come sono sciocche, queste cose, quando ci si ripensa il giorno dopo.»

«Sì.»

Selby rispose distrattamente. Laggiù, al limite della visibilità… c’era qualcosa, o era soltanto la sua immaginazione, attivata da ciò che Diana aveva visto o creduto di vedere? Le spirali di nebbia vennero più vicine, e qualunque cosa ci l’osse, là, scomparve. Comunque, cosa importava se anche li avesse visti? Non c’era nulla da fare, e da lontano non costituivano un pericolo.