Elizabeth annuì. «Lo prepareremo.»
Rimasta con le due donne, Mandy si sentì a disagio. Non solo per la loro presenza, anche se era irritante averle vicine, intente a fare cose che poteva fare da sola, e soprattutto a parlare. Le loro parole non significavano nulla, non comunicavano nulla. Ma c’era qualcosa d’altro che l’infastidiva, e che in un primo momento non aveva afferrato. La voce. Se la voce fosse tornata a farsi sentire, le due donne l’avrebbero riferito agli altri: e anche se non l’avessero fatto, l’avrebbero sentita, e lei non voleva spartirla con nessuno. La voce aveva parlato a lei, non alle altre.
«Sinceramente,» disse, «non ho bisogno d’aiuto. Me la cavo meglio da sola.»
«Sa cosa deve fare?» disse Elizabeth. «Vada a riposarsi, e lasci fare a noi.»
«No, non sono stanca.»
«Per la verità, lo facciamo per egoismo,» disse Elizabeth. «Abbiamo bisogno di qualcosa da fare, no, Jane?»
Jane disse: «Sì. Aiuta a non pensare.»
Parlava con voce sommessa: era ancora preoccupata per la sorella. Mandy avrebbe voluto dirle: non c’è di che preoccuparsi, tutto andrà per il meglio. Ma sapeva che sarebbe stato inutile dirlo, completamente inutile.
«La nebbia ha ricominciato a diradarsi,» disse Elizabeth. «Forse stavolta si alzerà definitivamente.» Le altre non dissero nulla, e lei proseguì: «Domani saremo liberi, se non stanotte.»
Liberi, pensò Mandy… cosa significava essere liberi? Un bambino non è libero, perché vive nel mondo degli adulti: le vacanze finiscono sempre quando inizia la scuola. E l’adulto? Ci si metteva in gabbia, alla prima scelta, e poi in un’altra gabbia dentro alla prima, e poi una terza dentro alla seconda. Come scatole cinesi, e ogni porta scattava quando si entrava… sia che si entrasse con gli occhi sereni, lietamente, oppure con riluttanza, brancolando, la serratura era infrangibile, la via del ritorno era sbarrata. E poiché le gabbie erano una dentro l’altra, ciascuna era più angusta, fino a quando, presumibilmente, nell’ultima era impossibile tendere le braccia, e persino respirare.
Con voce tranquilla, Elizabeth disse:
«Di solito non lo faccio, ma credo che quando ne verremo fuori mi prenderò una sbronza. Di champagne. Non mi sono più sbronzata di champagne da quando ho fatto la damigella d’onore alle nozze di mia sorella.»
Dall’esterno non era più giunto alcun suono, e Mandy si rese conto all’improvviso che non ne sarebbero venuti altri, finché quelle due erano lì. Si sentì nello stesso tempo lieta e impaziente. Non erano andati via. Erano là fuori, ad aspettare che lei rimanesse di nuovo sola.
Il tè era pronto e per il momento non c’era altro da fare. Mandy andò con le altre in salotto e rimase, a bere il tè e ad ascoltarli parlare. La nebbia si stava veramente alzando. Si vedeva ormai a una discreta distanza, e una volta Elizabeth disse di avere scorto, per un momento, l’oro pallido del sole. Questo li rese tutti ottimisti e allegri, persino Jane. Pensava ancora, probabilmente, che Diana sarebbe tornata. Ma perché doveva tornare? pensò Mandy. Tornare perché?
Si mosse per sgattaiolare via, e George disse:
«Cosa c’è, Mandy?»
«Niente. Ho ricordato di aver qualcosa da fare in cucina. Non mi ci vorrà molto.»
«Posso aiutarla io,» disse Elizabeth.
«No, è roba da poco.»
Osservandola, George disse: «Bene, tesoro. Grida se hai bisogno di noi.»
Mandy sorrise e annuì. Lui pensava che volesse andare a bere, e la proteggeva. Era un uomo buono. Era stata fortunata ad avere George. Andò in cucina e si accostò alla finestra. Vedeva la bottiglia sulla tavola, ma non era importante. Disse, sottovoce:
«Sono qui.»
Dapprima non ci fu risposta, e lei pensò che fossero andati via. Poi la voce di Ruth disse:
«Vieni fuori, Mandy. Vieni con noi. Allora non sarai più sola.»
«E si dimentica? Si dimentica davvero?»
«Sì. Tutto quello che bisogna dimenticare.»
Mandy rimase ancora un momento. Esitava ancora, ma si rendeva conto che non c’era motivo di indugiare. George poteva arrivare da un momento all’altro.
Andò in corridoio, e si fermò. Per arrivare alla porta principale doveva passare davanti all’uscio aperto del salotto. L’avrebbero sentita, forse addirittura vista. Andò invece alla porta della scala che conduceva in cantina, attenta a non far rumore, tolse il catenaccio. Scese in silenzio, in silenzio percorse il corridoio che conduceva alla porta esterna.
Non era facile tirare il catenaccio, ma lei ci riuscì. Andò fuori, e vide che era vero: la nebbia si diradava, diventava una foschia luminosa. Si soffermò, chiedendosi da che parte doveva andare. La voce, prima, proveniva dall’altra parte della casa, ma lei non voleva andare là, dove c’era buio. Voleva andare verso la luce. E poi non aveva importanza. Loro l’avrebbero trovata.
Scese il pendio innevato. Poi ricordò che l’avrebbero vista, se avessero guardato dalla finestra del salotto, ma neppure quello aveva importanza. Forse l’avrebbero chiamata, ma lei sapeva che non sarebbe tornata indietro.
La voce di Ruth la chiamò: «Mandy.»
Si voltò e li vide venire verso di lei… Marie e Peter, Ruth e Leonard e Andy. E Diana. Non era una minaccia. Era la fine dei ricordi, la fine della solitudine. Guardò lo chalet, alle loro spalle: si era spinta così lontano che la casa era confusa nella nebbia.
Povero George, pensò, e andò loro incontro.
XIV.
Una volta, durante il pomeriggio, quando Selby accennò di sfuggita agli Stati Uniti, Douglas pensò a Caroline. La sua reazione lo stupì. Non provò né il sussulto morboso dell’ansia depressiva, né la più rara, ma non meno familiare falsa euforia di essersi sbarazzato di lei. Non che pensasse a lei obiettivamente: ma sembrava meno reale. La realtà si era ristretta al presente, a lui stesso e a coloro che erano con lui. Provò a tenerla presente nella mente, a vederla con maggiore nitidezza, ma Caroline non divenne viva e Douglas rinunciò al tentativo. Era preoccupato per Jane. Avrebbe voluto poter fare o dire qualcosa, ma naturalmente non c’era nulla da dire o da fare.
Almeno Jane, come tutti gli altri, si era rasserenata un po’ con il migliorare del tempo. Sperava ancora che Diana fosse viva, là fuori, e non contagiata dagli altri. Douglas era lieto che lei potesse sperare, ma temeva la reazione che sarebbe venuta con lo spegnersi di quell’esile speranza. Inevitabilmente. Per lui non c’era dubbio, come non c’era per George o per Selby, che Diana fosse stata catturata.
George interruppe Selby che stava parlando della differenza tra il sistema nervoso centrale e quello simpatico, e si scusò: voleva andare a vedere come andava Mandy. Ovviamente era preoccupato per lei; ma non ne aveva motivo, pensò Douglas. Lei era apparsa lontana e distratta per tutto il giorno, ma la spiegazione era semplice. Probabilmente Mandy beveva da parecchio tempo, e la tensione degli eventi l’aveva spinta a eccedere con le dosi. Si sarebbe ripresa con la fine della tensione… sarebbe stato così per tutti.
Ma George chiamò, e la sua voce era inquieta. Selby corse in cucina, e gli altri lo seguirono. George andò loro incontro nel corridoio, con il viso contratto.
«Se ne è andata.»
Selby disse: «La finestra…»
«Ancora sbarrata.»
«Nessuno è entrato dalla porta d’ingresso,» disse Selby. «E nessuno è uscito. Ho tenuto continuamente d’occhio quel tratto del corridoio.
Elizabeth disse: «Forse è scesa in cantina.»
Tutti guardarono la porta, e videro che il catenaccio era stato tolto. George la raggiunse con due lunghi passi, la spalancò. Scese la scala chiamando «Mandy», e la sua voce riecheggiava.
In fondo al corridoio, la porta era aperta. Si affollarono a guardare la distesa di neve, l’orizzonte di nebbia che recedeva. Niente. George fece per slanciarsi fuori, ma Selby lo afferrò, lo trattenne con forza sorprendente.