Selby finì di bere, se ne versò ancora.
«E non dovremmo neppure esagerare con i liquori, suppongo. Dovremmo conservare le idee chiare.»
«Il dottore è lei,» disse George. «Ma al diavolo questa prescrizione. Ho intenzione di fare il pieno.»
Parlava con una gaiezza amara, quasi febbrile. Il tempo era tornato indietro, per lui? pensò Douglas. Vedeva tornare i giorni passati, i giorni del bere e della morte? Oppure c’era qualcosa d’altro… la paura e l’orrore della morte vivente? Doveva bere per cancellare il ricordo di Mandy, che l’abbandonava avviandosi sulla neve?
Selby disse: «Se dovessimo lottare…»
«Ebbene?» chiese George.
«Dobbiamo cercare di evitare i contatti fisici prolungati.»
«Che cosa intende per prolungati?» domandò Douglas.
«Vorrei saperlo. Sono sicuro che si tratta di un contagio per contatto… un assorbimento attraverso le terminazioni nervose, qualcosa del genere. Mandy…» E guardò George. «Non sappiamo perché Mandy è uscita, ma non possono averla dominata a distanza. Se fosse andata così, lei non sarebbe uscita lasciando la porta aperta. Li avrebbe fatti entrare. E in tutti gli altri casi, si è trattato chiaramente di un contatto. Ma non di un contatto immediato. Diana si dibatteva, cercava di liberarsi dei due che l’avevano afferrata. Hanno bisogno di un certo periodo di contatto fisico. Forse un minuto o due, forse addirittura mezz’ora.»
George bevve di nuovo, e di nuovo si riempì il bicchiere.
«Nel caso di Mandy,» disse, «non c’è voluto mezz’ora.»
«Probabilmente è più rapido quando qualcuno si sottomette volontariamente. Non ne sappiamo molto, e probabilmente non avremmo nulla da obiettare, se capitasse a noi. Ma dovremo stare attenti ad evitare il più possibile i corpo a corpo.»
«Non dimentichi il fucile.»
«Sì,» disse Selby. «Due colpi… e prima di avere il tempo di ricaricarlo se li trova tutti addosso. Penso che dovremmo sfasciare qualche mobile, per munirci di clave improvvisate.»
«Fate pure,» disse George. Ci pensò sopra e rise. «Cristo, sì! Non so di preciso quale clausola sia, ma nella polizza dell’assicurazione deve esserci qualcosa a proposito dei danni subiti nel resistere a un’invasione marziana.»
Portarono giù i materassi finché c’era ancora un po’ di luce, e li misero nel salotto. Lasciarono le lampade accese sui ballatoi e in alcune stanze da letto, un po’ per disorientare i nemici e un po’ per non sentirsi intorno il buio. Selby propose di organizzare un servizio di pattugliamento ai piani superiori, per stare tranquilli, ma l’idea venne lasciata cadere. Nessuno voleva saperne di dividere le loro forze ridottissime.
Elizabeth e Jane, con l’aiuto di Steve, cucinarono la cena che aveva preparato Mandy. Portarono il tavolo e le sedie in salotto, che era il punto centrale della casa, George, accompagnato da Selby, scese in cantina a prendere del vino e a controllare che tutto fosse in ordine. Quando risalirono, tornarono a chiudere la porta della scala.
George aveva un cesto di vimini pieno di bottiglie.
«Si direbbe che ha portato su mezza cantina,» disse Douglas.
«Mezza dozzina di Dole,» disse George, «e mezza dozzina di Johannisberg per quelli che lo preferiscono bianco. Lo Johannisberg andrebbe messo fuori a raffreddare, ma abbiamo deciso di non essere troppo pomposi.»
Aveva già bevuto parecchio; e anche Selby, nonostante il suo precedente ammonimento. Ma nessuno dei due era ubriaco e Douglas notò, durante la cena, che bevevano pochissimo vino. Ne bevve di più lui, perché prima si era limitato a un paio di bicchierini di liquore. Lo Johannisberg era molto buono. Ed erano buone anche le patate ripiene. Mangiarono tutti di buon appetito, e questo era consolante. Quali che fossero le loro apprensioni per la notte appena incominciata, non avevano tolto loro l’appetito.
Le donne sparecchiarono la tavola e gli uomini la riportarono in sala da pranzo, poi sedettero. Elizabeth propose di accendere la radio, facendo osservare che ormai contava poco, anche se le pile si scaricavano; ma George si oppose.
«Coprirebbe gli eventuali rumori.»
«Sono d’accordo,» disse Selby. «Vogliamo essere sicuri di poter sentire bene.»
«Non dobbiamo parlare?» chiese Elizabeth.
«Non vedo perché non dovremmo,» disse Selby. «Purché nessuno parli in modo così affascinante da catturare completamente la nostra attenzione.»
Era una scena tranquilla e gradevole, pensò Douglas. Avevano spostato il divano, mettendolo davanti al fuoco, e lì c’erano Jane ed Elizabeth, con Stephen in mezzo a loro. I tre uomini erano in poltrona, due da una parte, uno dall’altra. Avevano portato una buona scorta di ceppi, e il fuoco crepitava allegramente. C’erano due lampade, e la luce delle altre giungeva dalle porte aperte che davano in sala da pranzo, nel bar e nel corridoio. Dietro di loro, le pesanti tende erano chiuse. Avevano i bicchieri del vino avanzato dalla cena, e stavano seduti a chiacchierare come se facessero parte d’una sola famiglia, o come vecchi amici. L’unica nota stridente era il fucile, appoggiato ai pannelli di pino, a pochi centimetri dalla mano destra di George.
Per un tacito accordo, non parlavano degli ultimi avvenimenti, ed evitavano di nominare quelli che erano perduti. Era una conversazione leggera, ricca di aneddoti. Selby raccontò alcuni episodi della sua attività di medico, e George alcuni del suo servizio nella RAF, compresa la storia un po’ pazza e divertente di due giorni passati a bordo d’un canotto di gomma nel Mare del Nord, in compagnia di un mitragliere in preda a mania religiosa. Anche questo, si chiese Douglas, si sarebbe ridotto alle stesse proporzioni… una storia da raccontare davanti al fuoco, e piena di sfumature comiche?
Mentre la loro risata si spegneva, Jane disse:
«Ascoltate.»
«Cosa?»
«Mi è sembrato di sentire un rumore.»
Subito in allarme, Selby chiese: «In quale direzione?»
«Fuori, mi pare.»
Guardarono e ascoltarono, mentre Selby attraversava la stanza senza far rumore e scostava un angolo della tenda. Sbirciò fuori per un attimo, poi la richiuse.
«Niente. Fuori è molto buio, naturalmente. Ma fra poco dovrebbe rischiararsi. A est si vede il riflesso della luna.» Fece schioccare la lingua, esultante. «Ho potuto vedere il dosso della montagna. Questo significa che la nebbia se ne è andata.»
George si alzò e andò a vedere. Poi tornò, dicendo:
«È buio, ma sereno. Domattina saremo a posto.»
Douglas vide sui loro volti il riflesso della felicità e del sollievo che provava lui stesso. Era questione di ore, ormai. Stephen disse:
«Ci porteranno via con l’elicottero, vero? Solo fino a Nidenhaut, oppure fino a valle?»
Elizabeth fece, vivacemente: «Aspetta e vedrai. Ma adesso tu devi metterti a letto. Vieni. Ti darò una specie di lavata in cucina.»
«Lascia la porta aperta,» disse Selby.
«Non preoccuparti.»
Elizabeth portò via il bambino; la sentirono allontanarsi, e poi il suono lontano delle loro voci, mentre lavava Stephen; George disse:
«Io non ho mai creduto alle previsioni del tempo, ma gli svizzeri sono così…»
S’interruppe. Non c’era dubbio sul suono, questa volta, né sulla direzione. Proveniva dal basso, e dall’esterno… un martellare, e lo spicinio del vetro che si spezzava. Si guardarono in faccia, e Douglas si sentì stringere il cuore.
Selby disse sottovoce: «Ecco. Cercano di entrare. Pensa che le assi resisteranno?»