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«Non voglio correre rischi,» disse George. Prese il fucile e diede un’occhiata a Selby, che annuì. «Andiamo.»

Douglas li seguì. La stretta al cuore era paura, ma poteva continuare a sfidarla. A metà della scala della cantina, si accorse che anche Jane li seguiva. Si girò a mezzo e le disse: «Resti di sopra.»

Selby era più avanti, con la lampada, e Jane era solo una sagoma contro la luce che veniva dalla porta in alto.

«No. Vengo anch’io.»

Il suo tono non ammetteva discussioni, e del resto non era il momento. E Douglas era lieto di averla con sé. Scesero la scala e attraversarono il corridoio. La luce indicava che gli altri due erano andati nel ripostiglio delle casse. Li seguirono, e videro che stavano guardando la finestra. Era stata sfondata dall’esterno: sul pavimento erano sparsi i pezzi di vetro. Ma le assi erano ancora a posto, e fuori non si vedeva né si sentiva nessuno.

«Comunque, sarà meglio sparare,» disse George. «A titolo d’avvertimento.»

«Non mi sembra il caso. Io…»

Ancora lo spicinio del vetro, ma era difficile capire da dove provenisse. Poi, lo scricchiolio pesante e rapido delle tavole sopra le loro teste. Cominciarono a correre verso la scala: Selby per primo, con la lampada che oscillava mentre correva. Erano nel corridoio quando sentirono Elizabeth urlare. Quasi nello stesso istante, si sentì sbattere una porta, e Douglas vide scomparire il rettangolo di luce sopra di loro.

XV.

Sebbene fosse in preda alla furia e al panico, Selby ebbe il buon senso di tendere la lampada dietro di sé, perché la prendesse qualcun altro. Poi si lanciò su per la scala, si avventò contro la porta che cedette leggermente sotto il suo peso, ma non si aprì. Selby arretrò e si avventò di nuovo, senza risultati migliori. La sua spalla sinistra era indolenzita per l’urto. Si girò, urtò con la spalla destra. La porta parve schiudersi per un momento, ma fu tutto.

Sentiva il bambino che gridava, ma Elizabeth taceva. Il pensiero di ciò che poteva accaderle in quel momento l’esasperò: si gettò contro la porta. Dietro di lui, sulla scala, George stava dicendo qualcosa che in un primo momento lui non capì. Poi si sentì trascinare indietro.

«Si sposti,» disse George. «Io peso almeno venti chili più di lei.»

Il tonfo dell’assalto di George fu seguito quasi immediatamente da un tremendo scroscio, e Selby sperò, pazzamente, che la porta si fosse sfondata. Ma non filtrò neppure un filo di luce; e lo scroscio, ora se ne rendeva conto, era stato di qualcosa che cadeva, non che si rompeva: qualcosa di massiccio. George ritentò ancora e poi, voltandosi, gridò:

«Il fucile!»

Ansimava per lo sforzo. Douglas, che aveva il fucile, glielo passò. George se lo mise sotto il braccio e sparò. Fu quasi un colpo fisico, una martellata contro le orecchie, in quello spazio ristretto. E c’era l’odore acre, soffocante della polvere da sparo. Ma la porta non cedette, neppure quando George si avventò per la terza volta.

«Luce!»

Jane salì, con la lampada. Videro che lo sparo aveva aperto uno squarcio nel legno della porta, ma più oltre c’era altro legno, crivellato e bruciacchiato, ma sostanzialmente intatto. George batté furiosamente il calcio del fucile contro lo squarcio, ma nulla si smosse. Disse, stancamente: «È inutile.»

Selby lo tirò per le spalle, cercando di passare. «Lasci provare a me!»

George gli lasciò il posto, e Selby spinse la porta con tutte le sue forze, ma senza riuscire ad aprirla. Alle sue spalle, George disse:

«È l’armadio del corridoio. Lo hanno spostato, e si è incastrato contro la porta. Non lo smuoveremo neanche se insistessimo per un anno. Pesa una tonnellata.»

Selby tentò ancora una volta, ma capì che aveva ragione George. Era impossibile spostare l’armadio, da questa parte. Da questa parte… Rinunciò bruscamente al tentativo, cercò di scendere la scala, passando davanti a George. Ma questi l’afferrò, lo trattenne.

«Cos’ha intenzione di fare, Selby?»

Selby cercò di divincolarsi, ma si sentiva sfinito e dolorante, impotente contro la forza superiore dell’altro. Disse, conscio dell’assurdità delle proprie parole: «Mi lasci andare!»

«Andare dove?» chiese George. «Fuori dalla porta posteriore, e su per la scala della terrazza? La strada che hanno fatto loro per entrare? Non dica sciocchezze: sarebbe completamente in loro balia.»

Selby si rendeva conto che probabilmente era vero, ma non se la sentiva di essere ragionevole. Sentiva ancora il bambino che piangeva, di sopra. In preda all’orrore e alla tristezza, si chiese se il bambino stava a guardare, trattenuto da due di loro, forse, mentre gli altri la sopraffacevano… un orrido, grottesco stupro collettivo dell’anima anziché del corpo. Si dibatté con violenza per liberarsi della stretta di George.

«Mi lasci…»

«Mi ascolti,» disse George. «Mi ascolti. So quello che prova, ma non può più fare niente per lei. Niente. Adesso deve pensare a se stesso.»

«Perché?»

«E a noi. E un paio di miliardi di esseri umani, là fuori. Non capisce? Loro hanno quasi vinto.»

Quelle parole, e la torva convinzione con cui vennero pronunciate, lo placarono. Si rilassò, lasciò che George lo conducesse giù per la scala. Si fermarono nel corridoio: George gli teneva ancora la mano sul braccio. Vide i volti degli altri nella luce della lampada, vide che non nascondevano la loro paura, e si chiese se anche la sua era altrettanto evidente. Elizabeth, pensò disperato. Oh, Dio, non permettere che le facciano del male.

«Hanno cercato di dividerci,» disse George. «E ci sono riusciti. Una diversione a una delle finestre della cantina… a questo poteva provvedere facilmente il bambino. E alcuni di noi sarebbero scesi a vedere. E poi, una rapida irruzione nel salotto, la porta della scala chiusa, l’armadio spostato per bloccarla. Chiunque fosse rimasto lassù non sarebbe stato in grado di tener loro testa.»

«Se fossimo scesi tutti…» disse Douglas.

«Si sarebbero impadroniti comunque della casa. Ci hanno intrappolato quaggiù. Possono tenerci qui fino a quando arriva l’elicottero, e allora s’impadroniranno dell’equipaggio. Cioè, se non riescono a finirci prima.»

«E come?» chiese Douglas. «Noi non possiamo raggiungerli, ma neppure loro possono raggiungere noi.»

«Non possono? Quando sono pronti, devono soltanto togliere l’armadio. Niente di più facile.»

«Cosa possiamo fare?» disse Jane.

«Pensare, prima di cominciare a fare qualcosa,» disse George. «Non ce la siamo cavata molto bene, finora.»

Aveva ragione, pensò Selby. Cercava di non pensare a Elizabeth, ma la visualizzazione lo riempiva di sofferenza. Tremava irrefrenabilmente.

Douglas disse: «Se riuscissero a… be’, a prenderci, senza dubbio non potrebbero arrivare lontano. Due miliardi… Potrebbero impadronirsi della razza umana? Non diceva sul serio, vero?»

Parlare l’avrebbe aiutato a liberarsi la mente da quella tortura ossessiva. Selby disse:

«Diceva sul serio. Loro potrebbero farcela. Soprattutto con un elicottero a disposizione. Potrebbero disseminarsi nel Vallese, tanto per cominciare. In località isolate, magari in attesa di qualche bambino non accompagnato. E poi il bambino va a casa, dai fratelli e dalle sorelle, dalla madre… Anche se la gente cominciasse a capire quello che succede, non potrebbe far molto. Riuscirebbero a provocare il caos, prima ancora di impadronirsi di una minoranza consistente. E il caos sarebbe molto utile per il loro scopo.» Fissò la lampada che cominciava a fumare. «Non appena se ne saranno andati di qui, non so proprio come sarebbe possibile fermarli.»

«Quindi non debbono andarsene,» disse George.

Elizabeth era una sofferenza che l’opprimeva e lo schiacciava. Selby disse: