«E la lampada alla paraffina,» continuò Grainger. «Non ne ho più vista una da quand’ero bambino. Le tenevano nel cottage del giardiniere. Io le adoperavo per fare i toast, davanti al fuoco. Avevano una forchetta, che Kendall aveva fabbricato con del robusto filo di rame. Io mi sedevo sul tappeto davanti al camino. Era uno di quelli fatti di pezzi di stracci… tutti colori diversi. A motivi vivaci.»
Elizabeth Grainger disse: «La solita nostalgia, stamattina, dura più del solito.»
George cominciò a imburrare il suo toast. «Capisco quello che vuol dire,» osservò. «Il tappeto di stracci e tutto il resto. Ma non era nel cottage del giardiniere. Io ci vivevo in mezzo, con mia nonna. E le lampade, francamente, erano una grande scocciatura… uno dei miei compiti era scorciare gli stoppini.»
Sorrideva e, notò Mandy, osservava i Grainger. Era uno dei suoi trucchi. Gli piaceva vedere se riusciva a provocare una reazione: trovava divertente soprattutto l’imbarazzo. Come al solito, provò un senso di calore. Era stato in un’occasione del genere che George le era apparso per la prima volta come un tipo diverso.
Grainger ricambiò imperturbabile il sorriso. «Mrs. Kendall mi lasciava scorciare gli stoppini delle sue lampade. Devo dire che io mi divertivo. Ma immagino che i lavori cui si è costretti non siano mai divertenti.»
I Deeping scesero, e Mandy andò in cucina a organizzare le altre colazioni. Peter aveva spazzato via la neve dalla porta d’ingresso. Rientrò soffregandosi le mani, e Mandy gli versò del caffè.
«Il tempo promette di schiarirsi?» gli chiese.
«Il vento soffia meno forte.» Tenne la tazza fra le mani per scaldarle. «Avevo ragione, a proposito della valanga. Una piccola slavina, circa trecento metri più a ovest.»
Mandy annuì, poi pensò a quello che lui aveva detto.
«A ovest? Ma allora non può essere la causa del guasto alla linea elettrica.»
Peter si strinse nelle spalle. «Forse c’è stata un’altra slavina, tra qui e il villaggio.»
George entrò in cucina, accendendo una sigaretta. Ne offrì una a lei, ma Mandy scosse il capo. Lui disse:
«Qualcuno ha già provato a telefonare?»
«Non ci avevo pensato.»
«Faccio io.»
Quando George tornò, disse: «Niente da fare. Siamo completamente isolati.»
Mandy disse: «Dovremo far passare il tempo ai bambini. Dirò a Marie di sgombrare la sala da pranzo, subito dopo la colazione, e così potranno giocare lì.»
«Bene,» disse George. Prese una tazza e si versò il caffè. «Andrò a fare una ricognizione non appena il tempo migliora.»
La tempesta continuò per tutta la mattina, pur diminuendo d’intensità. Fino a quel momento non c’era segno di noia da parte degli ospiti: sembravano accontentarsi di leggere o di parlare, o di guardare la neve che cadeva. Mandy si adattò facilmente alla stufa a combustibile solido. Come portata principale preparò una casserôle di bue, con grano dolce e patate. Era un po’ a corto di verdure: quel giorno avrebbero dovuto andare a far provviste a Nidenhaut. C’erano in tutto tre cavoli, un paio di grossi cavolfiori, e circa tre chili di carote nella dispensa. D’altra parte, c’era una buona scorta di verdure in scatola. Comunque, non c’era motivo di preoccuparsi. Domani, probabilmente, avrebbero potuto andare a Nidenhaut.
Durante il pranzo smise di nevicare, e il vento si attenuò molto. George dichiarò che aveva intenzione di uscire a dare un’occhiata in giro.
Stavano prendendo il caffè in salotto. Ruth Deeping chiese:
«Prende la macchina?»
Rispose suo marito, in tono amabilmente sprezzante: «Con un metro e ottanta di neve contro la porta del garage? Non so neppure come farebbe a trovare la strada.»
«Oh, come sono stata sciocca,» fece lei. «Non ci avevo pensato.»
Grainger cambiò discorso, togliendola dall’imbarazzo: «Ha intenzione di scendere con gli sci, George?»
«Sì.»
«Fino al villaggio?»
«Se riesco a farcela.»
«E per tornare?»
«Tornerò a piedi, se sarà necessario,» disse George. «Un po’ di moto non può farmi male.»
Grainger disse: «Questo mi fa passare la voglia di offrirmi d’accompagnarla. Risalire fin qui da Nidenhaut, a me, farebbe male parecchio.»
Diana si alzò e si avvicinò inquieta alla finestra.
«Si sta schiarendo davvero,» disse. «C’è uno squarcio tra le nuvole.»
Grainger si alzò, le andò accanto. «Dove? Io non lo vedo.»
«Ecco là. Guardi.» Diana si appoggiò a lui, mentre tendeva la mano, osservò Mandy. Come era tutto assurdo, e così triste. «Un grosso squarcio.»
«Questa ragazza ha ragione,» disse Grainger. «C’è abbastanza azzurro da farne un bikini. O almeno mezzo bikini. Prendiamo gli sci e facciamo un po’ di slalom sul posto, mentre George si avventura in cerca di aiuto tra le nevi sconfinate.»
Mandy prese il caffè solo quando ebbero finito di sparecchiare e lei ebbe visto Marie già abbastanza avanti con la lavatura dei piatti. Mentre il caffè filtrava, sgattaiolò nel bar. Non c’era nessuno; dalla finestra si vedevano i bambini dei Deeping che trascinavano un luge su per il pendio. Aprì la credenza, si versò in fretta un gin in un bicchiere da medicinali che aveva portato, rimise a posto la bottiglia e chiuse di nuovo a chiave. Poi, ora che non aveva più bisogno di affrettarsi, portò il bicchiere accanto alla finestra e guardò fuori, senza assaggiarlo ancora.
Gli altri stavano sciando, più lontano. Riconobbe i Deeping, i Grainger e Diana Blackstone, e Douglas Poole. Jane Winchmore non si vedeva: doveva essere salita in camera sua. Sorseggiò il gin e provò un’ondata di affetto per tutti, per tutti gli esseri umani, sia che volassero altissimi come uccelli, sia che scivolassero e precipitassero nel ridicolo e nell’umiliazione. In fondo, anche uno come Leonard Deeping non era cattivo. Conoscere un po’ era comprendere un po’; comprendere un po’ era perdonare tutto. Sorrise dei propri pensieri. Oh, figlia mia, si disse, stai diventando filosofa. Buttò giù il resto del gin, si infilò il bicchiere nella tasca del grembiule e andò a prendere il caffè.
Il salotto era deserto. Era piacevole trovarlo vuoto, per un momento, e starci da sola, in pace. Accostò una poltrona alla finestra, prese un poggiapiedi, mise il caffè sul tavolo accanto, e sedette, con un libro in mano. Di tanto in tanto alzava gli occhi dalle pagine ai lunghi pendii innevati e alle vette lontane. Poi, una volta, alzando lo sguardo, fu stupita nel vedere una figura che saliva faticosamente: era George che tornava indietro. Diede un’occhiata all’orologio. Era partito non più di tre quarti d’ora prima.
Mandy gli andò incontro alla porta. George si sganciò gli sci, li mise nella rastrelliera, si grattò via la neve dagli scarponi.
«Come va?» chiese lei.
«Mezza montagna non c’è più.»
«All’angolo?»
«Sì.»
«Non c’è modo di passare?»
«No, a meno di essere un alpinista, e bisognerebbe andarci in cordata, per poter passare.»
«Allora siamo isolati.»
«Su questo non c’è dubbio, cara mia.»
«Per quanto tempo, secondo te?»
Geroge alzò le spalle. «Ci vorranno due o tre giorni di lavoro per sgombrare la strada, a dir poco. E forse non potranno cominciare subito.»
«E perché?»
«Be’, non mi stupirei se avessero avuto i guai loro, al villaggio. La montagna si è data una bella scrollata, in un modo o nell’altro. Voglio dire, ci sono due slavine, a quanto ne so io… più in giù potrebbero essercene altre.»
«E allora cosa facciamo?»
George sogghignò, all’improvviso. «Hai una sigaretta?» Mandy gliela diede. «Cosa facciamo? Ce ne stiamo qui buoni e aspettiamo. Non possiamo fare altro, no? Come stiamo a viveri?»