Jack Vance
I racconti inediti
INDICE
ICABEM
LA SELEZIONE
IL SIFONE PLAGIANO
IL FATO DEL PHALID
IL TEMPIO DI HAN
IL FIGLIO DELL’ALBERO
I SIGNORI DI MAXUS
ICABEM
Durante un periodo di sette mesi, James Keith aveva subito una serie di sottili e complesse operazioni chirurgiche, e il suo corpo già normalmente efficiente era stato alterato in molti modi: «migliorato», per usare il gergo del Ramo Speciale della CIA.
Guardando nello specchio, vide una faccia familiare solo per le fotografie che aveva studiato, scura, ferina, e rigorosa: letteralmente la faccia di un selvaggio. I capelli, che aveva lasciato crescere, erano stati oliati e attorcigliati in una treccia con fili di lamé dorati; i denti erano stati sostituiti con una dentiera di acciaio inossidabile; dalle orecchie pendeva una coppia di amuleti d’avorio. In ognuno dei casi, la funzione estetica era secondaria. I fili di lamé dell’acconciatura erano accumulatori multilaminati, la cui carica era mantenuta per azione termoelettrica. La dentiera codificava, condensava, trasmetteva, riceveva, espandeva e decodificava onde radio di energia quasi troppo bassa per essere intercettata. Gli amuleti apparentemente d’avorio erano unità radar stereofoniche, che non solo potevano guidare Keith nel buio, ma provvedevano anche ad avvertirlo in una frazione di secondo dell’arrivo di un proiettile, una freccia, un randello. Le unghie erano in una lega di rame e argento, connesse internamente agli accumulatori tra i capelli. Un altro circuito serviva da terra, per proteggerlo contro l’elettrocuzione, una delle potenti armi a sua disposizione. Questi erano gli innesti più evidenti; altri più sottili erano stati costruiti sotto la pelle.
Mentre se ne stava davanti allo specchio due tecnici taciturni gli avvolgevano uno stretto turbante darshba attorno alla testa, e gli drappeggiavano addosso una veste bianca. Keith non era più in grado di riconoscere se stesso nell’immagine allo specchio. Si girò verso Carl Sebastiani, che era rimasto a osservare dall’altra parte della stanza, un uomo di bassa statura, pallido come una pergamena, con zigomi austeri e un teschio dall’aspetto fragile. Il grado di Sebastiani, Assistente al Vicedirettore, sottovalutava la sua autorità, così come l’aria delicata travisava la durezza interiore.
«Tra poco diventerai Tamba Ngasi quasi quanto sei James Keith,» disse Sebastiani. «Possibilmente di più. Nel qual caso la tua utilità avrà fine, e verrai riportato a casa.»
Keith non fece commenti. Sollevò le braccia, sentendo la tensione delle nuove connessioni e condutture. Strinse il pugno destro, guardò i tre pungiglioni metallici apparire sopra le nocche. Alzò la mano sinistra, e con il palmo sentì le radiazioni infrarosse emesse dalla faccia di Sebastiani. «Io sono James Keith. Reciterò la parte di Tamba Ngasi, ma non diventerò mai lui.»
Sebastiani ridacchiò freddamente. «Un volto è un simbolo quasi irresistibile. In qualsiasi caso avrai poco tempo per l’introspezione… Vieni su nel mio ufficio.»
Gli assistenti gli sfilarono la veste bianca; Keith seguì Sebastiani nella sua suite ufficiale, tre stanze calme, fredde ed eleganti quanto lo stesso Sebastiani. Keith sprofondò tra i cuscini di una poltrona, Sebastiani scivolò dietro la sua scrivania, dove premette una fila di bottoni. Su uno schermo apparve una cartina su grande scala dell’Africa. «Sembra che si stia aprendo una nuova fase, e noi intendiamo sfruttarla.» Toccò un altro bottone, e un piccolo rettangolo nella parte inferiore della grande protuberanza mauritana si illuminò di verde. «Questa è Lakhadi. Fejo è quel punto luminoso vicino a Tabacoundi Bay.» Lanciò un’occhiata obliqua a Keith. «Ricordi i tubi di lancio galleggianti degli ICBM?»
«Vagamente. Hanno fatto notizia una ventina di anni fa. Ricordo i lanci.»
Sebastiani annuì. «Nel 1963. Un prodotto artigianale. Gli ICBM — i Titans — erano già obsoleti, i tubi troppo costosi, la manutenzione un rompicapo. Un mese fa sono andati per eccedenza a una ditta di recupero giapponese, naturalmente escluse le testate. La settimana scorsa il Premier di Lakhadi, Adoui Shgawe, li ha comprati, apparentemente senza il consiglio, il consenso, o l’approvazione né dei Russi né dei Cinesi.»
Sebastiani digitò altri quattro numeri; lo schermo tremolò e si offuscò. «Ancora un nuovo processo,» disse Sebastiani criticamente. «Immagini registrate grazie alla sedimentazione di atomi su un cristallo fotosensibile. La cinepresa è camuffata, efficacemente anche se in modo stravagante, da comune mosca domestica.» Un bagliore rosso e oro esplose sullo schermo. «Impurità; i tecnici le chiamano molecole trasgressive.» L’immagine si stabilizzò mostrando una camera del consiglio sormontata da un’alta cupola, splendidamente illuminata dalla luce soffusa del sole. «Il nuovo stile architettonico,» disse Sebastiani con sarcasmo. «Zimbabwe, dottor Caligari, e Bolshoi Ballet in parti uguali.»
«Ha un certo fascino selvaggio,» disse Keith.
«Fejo è il teatro di tutta l’Africa; nessuna obiezione, basta che si tratti di una dimostrazione spettacolare.» Sebastiani sfiorò un bottone e bloccò la scena nella camera del consiglio. «Shgawe è a capotavola, in verde e oro. Sono certo che lo riconosci.»
Keith annuì. Il corpo grande e grosso di Shgawe e la faccia rotonda e muscolosa gli erano diventati familiari quasi quanto i propri.
«Alla sua destra c’è Leonida Pashenko, l’ambasciatore russo. Dall’altra parte l’ambasciatore cinese, Hsia Lu-Minh. Gli altri sono assistenti.» Rimise in moto l’immagine. «Non siamo riusciti a registrare il sonoro; il laboratorio per la lettura sulle labbra ci ha dato una traduzione approssimativa… Adesso Shgawe sta annunciando il suo acquisto. È mite e affabile, ma osserva Pashenko e Hsia come un falco. Sono sbigottiti e seccati, forse d’accordo per la prima volta da anni… Pashenko si informa sulla necessità di armi tanto grandiose… Shgawe replica che erano a buon mercato, e contribuiranno sia alla difesa che al prestigio di Lakhadi. Pashenko dice che l’URSS ha assicurato l’indipendenza di Lakhadi, e che preoccupazioni simili sono superflue. Hsia è pensieroso. Pashenko è più instabile. Sottolinea che i Titani sono non soltanto obsoleti e non armati, ma esigono un vasto complesso tecnico di supporto.
«Shgawe ride. «Me ne rendo conto e in questa sede richiedo tale aiuto all’URSS. Se l’URSS non sarà disponibile, farò la stessa richiesta alla Democrazia Popolare Cinese. Se di nuovo non avrò successo, mi rivolgerò altrove.»
«Pashenko e Hsia si chiudono come morse. Tra di loro non scorre buon sangue; non si fidano uno dell’altro. Pashenko riesce ad annunciare che consulterà il suo governo, e per oggi è tutto.»
L’immagine si dissolse. Sebastiani si appoggiò allo schienale della poltrona. «Tra due giorni Tamba Ngasi lascerà la sua circoscrizione elettorale Kotoba sul fiume Dasa, per la riunione del Grande Parlamento a Fejo.» Proiettò sullo schermo una mappa dettagliata, indicò Kotoba e Fejo con un puntino luminoso. «Scenderà il fiume Dasa su una lancia fino a Dasai, e continuerà in treno fino a Fejo. Suggerisco che tu lo intercetti a Dasai. Tamba Ngasi è un Uomo Leopardo, e ha preso parte allo Sterminio Rodesiano. Per conquistare il posto nel Grande Parlamento ha ucciso suo zio, un fratello, quattro cugini. Misure estreme non dovrebbero causarti rimorsi.» Con fare meticoloso Sebastiani coprì lo schermo. «Il programma successivo l’abbiamo già discusso a lungo.» Aprì uno stipo e tirò fuori una malconcia valigia di fibra. «Ecco il tuo equipaggiamento. Sei a conoscenza di tutto ciò che contiene, tranne… queste.» Gli mostrò tre fiale, contenenti rispettivamente delle pastiglie bianche, gialle, e marroni. «Vitamine, secondo l’etichetta.» Considerò Keith con sguardo da gufo. «Le chiamiamo Pillole dell’Impopolarità. Non ingerirle, a meno che tu non voglia essere impopolare.»