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Pashenko, a sua volta, si espresse con parole altrettanto mordaci. «Con l’aiuto dell’Unione Sovietica, Lakhadi si trova assolutamente al sicuro dalle manovre offensive dell’Occidente. Raccomandiamo ora che tutti i tecnici, eccettuati quelli attualmente impegnati nei programmi di addestramento, vengano ritirati. La manodopera africana deve foggiare il futuro dell’Africa!»

James Keith ascoltava le loro voci solo parzialmente, e, senza che ne avesse l’intenzione, nella sua mente si formò uno schema dalla prospettiva così magnifica da sorprenderlo. Era una questione politica; poteva gire senza prima consultare Sebastiani? Ma era Tamba Ngasi almeno quanto era James Keith. E quando si alzò per rivolgersi all’assemblea, fu Tamba Ngasi a parlare.

«I Compagni Pashenko e Hsia hanno parlato, e io ho ascoltato con interesse. Soprattutto mi sono graditi i sentimenti espressi dal Compagno Pashenko. I cittadini di Lakhadi devono operare in maniera eccellente in ogni campo, senza ulteriori controlli dall’estero. Tranne per quanto riguarda una faccenda critica. Non siamo ancora in grado di fabbricare le testate per il nostro nuovo sistema di difesa. Colgo quindi questa felice occasione per richiedere ufficialmente all’Unione Sovietica i materiali esplosivi necessari.»

Gli applausi si levarono alti, e mentre Hsia Lu-Minh batteva le mani con zelo, Leon Pashenko mostrava molto meno entusiasmo. Dopo il banchetto fece visita a Keith, e si espresse con molta schiettezza.

«Mi rincresce, ma la politica stabilita dall’Unione Sovietica è di mantenere il controllo su tutti i suoi congegni nucleari. Non possiamo aderire alla tua richiesta.»

«Peccato,» disse Keith.

Leon Pashenko parve sorpreso, essendosi aspettato proteste e discussioni.

«Peccato, perché adesso sono costretto a rivolgere la stessa richiesta ai Cinesi.»

Leon Pashenko sottolineò i pericoli contingenti. «I Cinesi sono padroni duri!»

Keith congedò con un inchino il perplesso Russo. Inviò immediatamente un messaggio all’Ambasciata cinese, e mezz’ora dopo apparve Hsia Lu-Minh.

«Le idee espresse questa sera dal Compagno Pashenko mi sembravano valide,» disse Keith. «Suppongo che tu sia d’accordo.»

«Di tutto cuore,» dichiarò Hsia Lu-Minh. «Naturalmente però il programma per la riforma agricola di cui abbiamo discusso a lungo non verrebbe sottoposto a tali restrizioni.»

«Assolutamente sì,» disse Keith. «Comunque potrebbe venire iniziato un limitatissimo programma sperimentale a condizione che la Democrazia Popolare Cinese fornisca le testate, immediatamente e rapidamente, per i nostri diciotto missili.»

«Devo comunicare con il mio governo,» disse Hsia Lu-Minh.

«Sei pregato di fare presto,» disse Keith, «sono impaziente.»

Hsia Lu-Minh ritornò il giorno seguente. «Il mio governo è d’accordo di armare i missili, a condizione che il programma sperimentale previsto consista di almeno duecentomila tecnici agricoli.»

«Impossibile! Come possiamo sopportare un’incursione tanto numerosa?»

La cifra fu infine stabilita a centomila, con solo sei missili forniti delle testate nucleari.

«Questo accordo segnerà un’epoca,» dichiarò Hsia Lu-Minh. «È l’inizio di un processo rivoluzionario,» confermò Keith.

Ci furono ulteriori dispute per concordare la consegna delle testate contemporaneamente all’arrivo dei tecnici, e le negoziazioni quasi saltarono. Hsia Lu-Minh si mostrò afflitto di scoprire che Keith esigeva un’effettiva e immediata consegna delle testate, e non si accontentava di una dichiarazione meramente simbolica dell’intento. Keith, a sua volta, espresse un moto di sorpresa quando Hsia Lu-Minh sollevò delle obiezioni alla clausola condizionale che concedeva ai «tecnici» che sarebbero arrivati un visto di soli sei mesi, contrassegnato TEMPORANEO, con opzione di rinnovo a discrezione del governo di Lakhadi. «Come possono i tecnici identificarsi con i problemi? Come possono imparare ad amare il suolo che devono coltivare?»

Le difficoltà furono infine appianate; Hsia Lu-Minh si accomiatò. Quasi subito Keith ricevette una chiamata da Sebastiani, che aveva soltanto allora appreso della trattativa in corso tra Cina e Lakhadi. La voce di Sebastiani era prudente, titubante, indagatrice. «Non capisco bene i risvolti razionali di questo progetto.»

Quando Keith era stanco, l’elemento Tamba Ngasi della sua personalità esercitava un’influenza maggiore. La voce che rispose a Sebastiani risuonò impaziente, aspra e rude alle orecchie dello stesso Keith.

«Non ho dato il via a questo progetto con razionalità, ma con intuito.»

La voce di Sebastiani si fece ancora più prudente. «Non riesco a vedere i vantaggi di questo affare.»

Keith, o Tamba Ngasi, qualunque fosse la personalità dominante, rise. «I Russi stanno lasciando Lakhadi.»

«Mai Cinesi mantengono il controllo. In confronto ai Cinesi, i Russi sono garbati conservatori.»

«Ti sbagli. Io ho il controllo!»

«Benissimo, Keith,» disse Sebastiani meditabondo. «Capisco che dobbiamo avere fiducia nel tuo giudizio.»

Keith — o Tamba Ngasi — diede una risposta brusca, e se ne andò a letto. Lì la tensione lo abbandonò, e James Keith restò sdraiato a fissare nel buio.

Passò un mese. I Cinesi consegnarono due testate, trasportandole via aria dagli impianti di produzione di Ulan Bator. Elicotteri da carico le misero in posizione, e Keith rivolse un discorso trionfante a Lakhadi, all’Africa, e al mondo. «Da questo giorno in poi, Lakhadi, il timone dell’Africa, avrà diritto a un posto tra i consigli del mondo. Abbiamo ricercato il potere, non soltanto per il desiderio di potere, ma per assicurare all’Africa la rappresentanza di cui il nostro popolo godeva solo nominalmente. Il Sud non deve più sottomettersi all’Ovest, al Nord, o all’Est!»

Il primo contingente di «tecnici» cinesi arrivò tre giorni dopo: mille giovani uomini e donne, uniformemente vestiti in tuta blu e scarpe di tela bianca. Marciarono in plotoni disciplinati fino agli autobus, e vennero convogliati a una tendopoli vicina alle terre dove si sarebbero dovuti insediare.

Quel giorno Leon Pashenko fece visita a Keith per consegnare una comunicazione confidenziale da parte del Presidente dell’URSS. Pashenko attese che Keith scorresse rapidamente lo scritto.

«È necessario sottolineare,» diceva la comunicazione, «che il governo dell’URSS non vede positivamente l’espansione dell’influenza cinese a Lakhadi, e si ritiene libero di prendere le misure indispensabili a proteggere gli interessi dell’URSS.»

Keith annuì lentamente. Levò gli occhi su Pashenko, che lo osservava con le labbra tirate in un sorriso inespressivo. Keith premette un bottone e parlò attraverso una griglia. «Fate entrare le telecamere della televisione, sto per trasmettere un comunicato importante.»

Una squadra arrivò in fretta con tutto l’equipaggiamento. Il sorriso di Pashenko si fece ancora più immobile, la pelle parve rammollirsi.

Il regista fece un segnale a Keith. «Siamo in onda.»

Keith guardò dentro l’obiettivo. «Cittadini di Lakhadi, e Africani. Seduto accanto a me c’è Leon Pashenko, Ambasciatore dell’URSS. Mi ha appena omaggiato di una comunicazione ufficiale che tenta di interferire con la politica interna di Lakhadi. Colgo l’occasione per esprimere un pubblico rimprovero all’Unione Sovietica. Dichiaro che il governo di Lakhadi verrà influenzato solo da provvedimenti tesi a beneficiare i suoi cittadini, e che ogni ulteriore interferenza da parte dell’Unione Sovietica può condurre alla rottura delle relazioni diplomatiche.»