Keith si inchinò cortesemente a Leon Pashenko, che per tutto il tempo in cui era stato inquadrato dalla telecamera aveva mantenuto una smorfia congelata sulla faccia. «Prego, accetta quest’annuncio come risposta ufficiale alla comunicazione di questa mattina.»
Senza dire una parola, Pashenko si alzò in piedi e lasciò la stanza.
Alcuni minuti più tardi Keith ricevette una comunicazione da Sebastiani. La voce silenziosa era più pungente di quanto Keith l’avesse mai sentita. «Cosa diavolo hai intenzione di fare? Pubblicità? Hai umiliato i Russi, forse hai messo fine alla loro presenza in Africa, ma hai considerato i rischi? Non per te stesso, non per Lakhadi, nemmeno per l’Africa, ma per il mondo intero?»
«Non ho considerato tali rischi. Essi non concernono Lakhadi.»
La voce di Sebastiani si incrinò per la rabbia. «Lakhadi non è il centro dell’universo solo perché tu vi sei stato assegnato! Da adesso in poi — questi sono ordini, bada — non muoverti senza prima consultare me!»
«Ho sentito tutto quello che mi interessava,» disse Tamba Ngasi. «Non chiamarmi di nuovo, non cercare di interferire con i miei piani.» Staccò il ricevitore, sospirò, e si lasciò cadere nella poltrona. Poi sbatté gli occhi, e si drizzò a sedere mentre il ricordo della conversazione gli echeggiava nel cervello.
Per un momento pensò di richiamare per cercare di spiegarsi, poi rinunciò all’idea. Di certo Sebastiani avrebbe pensato che era impazzito, quando invece era semplicemente troppo stanco, troppo teso. Così Keith si rassicurò.
Il giorno seguente ricevette un rapporto da un gruppo di tecnici svizzeri, e fu preso dalla collera, sebbene le scoperte non facessero che confermare quello che si era aspettato.
L’Ambasciatore cinese sfortunatamente scelse proprio quel momento per fargli visita, e venne fatto accomodare nell’ufficio del Premier. Con la faccia rotonda, cerimonioso, traboccante di affabilità, Hsia Lu-Minh si fece avanti.
Mi prende per il capotribù di una terra sperduta, pensò l’uomo che ormai era interamente Tamba Ngasi, un uomo spietato come un caimano, astuto come uno sciacallo, oscuro come la giungla.
Hsia Lu-Minh era pieno di complimenti benevoli. «Con quanta chiarezza hai compreso il corso del futuro! Non è solo un truismo affermare che le razze di colore di tutto il mondo condividono un comune destino.»
«Davvero?»
«Davvero! E io reco l’autorizzazione del mio governo a permettere il trasferimento a Lakhadi di un altro gruppo di lavoratori capaci e altamente addestrati!»
«E cosa mi dici delle altre testate per i missili?»
«Verranno sicuramente consegnate e imballate secondo il previsto.»
«Ho cambiato idea,» disse Tamba Ngasi. «Non voglio più immigranti cinesi. Parlo a nome di tutta l’Africa. Coloro che si trovano già in questo paese devono andarsene, e così anche le missioni cinesi di Mali, Ghana, Sudan, Angola, della Federazione Congolese, praticamente di tutta l’Africa. I Cinesi devono lasciare l’Africa, completamente e irrevocabilmente. Questo è un ultimatum. Avete una settimana per acconsentire. Altrimenti Lakhadi dichiarerà guerra alla Repubblica Popolare Cinese.»
Hsia Lu-Minh lo ascoltò esterrefatto, con la bocca spalancata a forma di ciambella per lo stupore. «Stai scherzando?» chiese con voce tremolante.
«Credi che stia scherzando? Ascolta!» Di nuovo Tamba Ngasi fece chiamare la squadra televisiva, e di nuovo fece una dichiarazione pubblica.
«Ieri ho ripulito il mio paese dai Russi; oggi caccio i Cinesi. Ci hanno aiutato a uscire dal caos post-coloniale, ma perché? Per perseguire i loro vantaggi. Non siamo gli sciocchi che credono.» Tamba Ngasi puntò un dito contro Hsia Lu-Minh. «Parlando a nome del suo governo, Hsia Lu-Minh ha graziosamente acconsentito. Partiranno subito. Lakhadi ora ha una robusta difesa, e non ha più bisogno della protezione di nessuno. Se qualcuno dovesse cercare di opporsi all’epurazione dell’influenza straniera, queste armi verranno usate all’istante, senza remore. Non posso parlare più chiaramente.» Si rivolse all’inerte Ambasciatore cinese. «Compagno Hsia, a nome dell’Africa ti ringrazio per la promessa di cooperazione, e mi impegno a fartela rispettare.»
Hsia Lu-Minh uscì barcollando dalla stanza. Ritornò all’Ambasciata cinese e si sparò un colpo in testa.
Otto ore dopo un aereo cinese arrivò a Fejo, carico di ministri, generali e assistenti. Tamba Ngasi li ricevette immediatamente. Ting Sieuh-Ma, principale teorico cinese, parlò con veemenza. «Ci mettete in una posizione intollerabile. Dovete revocare la vostra decisione!»
Tamba Ngasi rise. «Avete solo una strada da percorrere. Dovete obbedire. Credete che i Cinesi trarrebbero vantaggio da una guerra con Lakhadi? Tutta l’Africa insorgerebbe contro di voi; vi trovereste di fronte a un disastro. E non dimenticate le nostre nuove armi. In questo momento sono puntate sulle zone più nevralgiche della Cina.»
La risata di Ting Sieuh-Ma era beffarda. «È l’ultima delle nostre preoccupazioni. Credete che ci saremmo fidati a darvi delle testate attivate? Le vostre ridicole armi sono innocue come topolini.»
Tamba Ngasi mostrò il rapporto svizzero. «Lo so. I detonatori: novantasei per cento piombo, quattro per cento scorie radioattive. L’idruro di litio, comunissimo idrogeno. Ci avete ingannato. Per questo intendiamo cacciarvi dall’Africa. In quanto alle testate, ho trattato con una potenza europea; proprio in questo momento stanno installando il materiale attivo in quei missili che voi sostenete di disprezzare. Non avete scelta. Andatevene dall’Africa entro una settimana, o preparatevi al disastro.»
«È un disastro comunque,» disse Ting Sieuh-Ma. «Ma rifletti. Tu sei un uomo solo, noi siamo l’Est. Puoi davvero sperare di batterci?»
Tamba Ngasi scoprì i denti di acciaio inossidabile in un ghigno da lupo. «Questo è ciò che spero.»
Keith si appoggiò allo schienale della poltrona. La delegazione se n’era andata, e lui era seduto da solo nella sala delle conferenze. Si sentiva svuotato di ogni energia, fiacco e svogliato. Tamba Ngasi, almeno temporaneamente, era stato escluso.
Keith pensò agli ultimi giorni, e sentì una fitta di terrore per la propria sconsideratezza. Era stata la sconsideratezza, piuttosto che Tamba Ngasi, ad avere umiliato e confuso due delle grandi potenze mondiali. Non l’avrebbero perdonato. Adoui Shgawe, un avversario relativamente mite, era stato dissolto in acido. Tamba Ngasi, fautore di una politica assolutamente intollerabile, difficilmente poteva aspettarsi di sopravvivere.
Keith si accarezzò il mento, lungo e ruvido, e tentò di formulare un piano di sopravvivenza. Forse per una settimana poteva considerarsi al sicuro, mentre i suoi nemici decidevano un piano di attacco…
Keith balzò in piedi. Perché avrebbe dovuto esserci una qualunque dilazione? Adesso i minuti erano preziosi, sia per i Russi che per i Cinesi; dovevano avere provveduto a ogni possibile eventualità.
Lo schermo di comunicazione ronzò, e comparve il volto aggrottato del Grande Maresciallo Achille Hashembe, che parlò brevemente. «Non capisco i tuoi ordini. Perché dovremmo esitare adesso? Sbarazziamoci dei parassiti, rimandiamoli nella loro terra…»
«Di che ordini stai parlando?» chiese Keith.
«Di quelli che hai impartito cinque minuti fa davanti al palazzo, relativi agli immigrati cinesi.»
«Capisco,» disse Keith. «Hai ragione. C’è stato un equivoco. Ignora quegli ordini, procedi come d’accordo.»
Hashembe annuì con brusca soddisfazione; lo schermo si oscurò. Non ci sarebbe stata alcuna dilazione, pensò Keith. I Cinesi stavano già attaccando. Girò una manopola sullo schermo, e l’impiegata della reception alzò lo sguardo. Sembrava sorpresa.