«Qualcuno è entrato nel palazzo negli ultimi cinque minuti?»
«Solo tu stesso, signore… come hai fatto a salire così in fretta?»
Keith interruppe la comunicazione. Andò alla porta, rimase in ascolto, e sentì il ronzio dell’ascensore in salita. Corse nella sua camera privata, aprì in fretta un cassetto. Le sue armi… sparite. Tradito da uno dei suoi servitori.
Keith andò alla porta che dava sul giardino pensile. Dal giardino poteva arrivare fino alla piazza e fuggire, se avesse deciso così. Alle sue orecchie giunse il sommesso fluttuare di un suono. Keith uscì nel buio, scrutò il cielo. La notte era nuvolosa; si vedeva solo la tenebra. Ma il suo radar lo avvertì di un oggetto che stava scendendo, e il rilevatore di raggi infrarossi nella mano ne sentì il calore.
Da dietro di lui, nella camera da letto, venne un altro rumore sommesso. Si girò, e vide se stesso attraversare prudentemente la soglia e guardarsi attorno nella stanza. Avevano fatto un buon lavoro, pensò Keith, considerato il breve tempo a disposizione. Quella versione di Tamba Ngasi era forse mezzo pollice più bassa di lui, la faccia era più piena, la pelle un’ombra più scura e non troppo abilmente sfumata. Si muoveva senza il naturale dondolio africano, su gambe più grosse e più corte di quelle di Keith. Illogicamente Keith pensò che per simulare un Negro, era meglio partire da un Negro. A quel riguardo, almeno, gli Stati Uniti avevano un vantaggio.
Il nuovo Tamba lasciò la sua camera da letto. Keith scivolò vicino alla porta con l’intenzione di seguirlo e di attaccarlo a mani nude, ma proprio in quel momento scese dal cielo l’oggetto che aveva percepito con il radar: un mini-aereo, poco più di un seggiolino, oscillava sospeso a quattro aviolamine di metallo rotanti. L’oggetto atterrò delicatamente nel giardino buio; Keith si appiattì contro il muro, e sporse la testa da dietro un’anfora di coccio.
L’uomo sceso dal cielo si avvicinò alla porta scorrevole, scivolò furtivo nella camera da letto. Keith osservava stupito. Ancora Tamba Ngasi, più snello e spigoloso del primo intruso. Questo Tamba sceso dal cielo girò rapidamente lo sguardo per la stanza, sbirciò dalla porta nel corridoio, e l’attraversò fiduciosamente.
Keith lo seguì con cautela. Il Tamba sceso dal cielo avanzò a scatti lungo il corridoio, si fermò all’arcata che dava nello studio disposto su tre livelli. Keith non poté trattenere una silenziosa risata al pensiero della farsa di mortali equivoci che di lì a poco sarebbe necessariamente seguita.
Tamba dal cielo balzò nello studio come un gatto. Istantaneamente ci fu un’esclamazione frenetica, il crepitio di un rumore mortale. Poi silenzio.
Keith corse alla porta, e restando nell’ombra sbirciò nello studio. Tamba dal cielo teneva una specie di pistola o proiettore in una mano e un disco luccicante nell’altra, e procedeva rasente alla parete. Tamba gambe corte si era nascosto dietro una libreria, dove Keith poteva udirlo mormorare sottovoce. Tamba dal cielo fece un rapido balzo in avanti; da dietro la libreria uscì una scintillante linea di luce e ioni. Tamba dal cielo deviò il raggio con lo scudo e lanciò una granata che Tamba gambe corte gettò contro la libreria; la libreria esplose in avanti, e Tamba dal cielo balzò indietro per evitarla. Inciampò e cadde goffamente. Tamba gambe corte gli fu addosso, colpendolo con un’accetta che faceva scaturire fumo e scintille dovunque affondasse.
Tamba dal cielo giaceva morto, la sua missione era stata un fallimento, la sua vita conclusa. Tamba gambe corte si alzò trionfante. Vide Keith e si lasciò sfuggire una gutturale imprecazione di sorpresa. Scese al secondo pianerottolo rimbalzando come una palla di gomma, con l’intenzione di aggirarlo.
Keith corse fino al corpo di Tamba dal cielo, diede uno strattone alla sua arma, ma era intrappolata sotto il pesante corpo. Una linea di luce ionizzante gli passò sfrigolando davanti al viso. Si buttò a terra. Tamba gambe corte salì correndo gli scalini; Keith tirò furiosamente l’arma, ma non avrebbe fatto in tempo: la sua fine era giunta.
Tamba gambe corte si arrestò di colpo. Sulla porta di fronte c’era un uomo snello dall’aspetto duro, in veste bianca: ancora un altro Tamba. Questo era uguale a Keith, pelle, fattezze e peso, identico tranne che per un’indefinibile differenza di espressione. Tutti e tre si fissarono reciprocamente stupefatti; Tamba gambe corte puntò il raggio elettrico. Il nuovo Tamba scivolò di lato come un’ombra, fendendo l’aria con il laser. Tamba gambe corte si gettò a terra, rotolò su se stesso, avanzò accovacciato. Il nuovo Tamba lo aspettò e ingaggiarono un corpo a corpo. Le scintille scoccavano dai piedi, mentre ognuno cercava di fulminare l’altro; entrambi erano stati equipaggiati di circuiti a massa, e l’elettricità si dissipava senza fare danni.
Tamba gambe corte si divincolò, roteò l’accetta. Il nuovo Tamba la schivò, puntò il laser. Tamba gambe corte lanciò l’accetta e colpì il rotante del laser. I due uomini scattarono assieme. Keith raccolse accetta e laser e si preparò ad affrontare il superstite. «Un genere di assassinio davvero peculiare,» rifletté. «Tutti vengono uccisi, tranne la vittima.»
Tamba gambe corte e il nuovo Tamba erano avvinghiati in un intrico fremente. Si udì il rumore di uno scatto, un rantolo. Uno dei due uomini si raddrizzò, si voltò verso Keith: il nuovo Tamba.
Keith puntò il laser. Il nuovo Tamba alzò le mani, indietreggiò. Gridò: «Non colpirmi, James Keith. Io sono il tuo sostituto.»
LA SELEZIONE
Jarvis scese lungo Riverview Way dal magazzino della stazione, dove aveva passato una notte scomoda. All’angolo di Sion Novack Way inserì la sua penultima monetina di rame nel distributore di Pegasus, il bollettino dell’industria agricola e mineraria; prese l’involucro di tessuto rosa e continuò il cammino attraverso la sporcizia della strada verso l’Original Blue Man Café. Scelse un tavolo con precisione e accuratezza, in modo da volgere la schiena a un angolo e avere sottocchio tutta la via.
Apparve il cameriere, guardò Jarvis dall’alto in basso, e Jarvis rispose fissandolo con durezza. «Un anice caldo e un visore.»
Il cameriere si allontanò. Jarvis si rilassò, massaggiandosi l’anca dolorante e osservando la sagoma scura che di quando in quando si profilava frettolosa contro la foschia. Le strade erano ancora buie; era sorto solo uno dei soli Procrusteani, e non poteva certo contrastare le nebbie dell’Idle River.
Il cameriere ritornò con un boccale di metallo opaco e il visore. Jarvis si separò dall’ultima moneta, scaldò le mani sul boccale, introdusse la pellicola, e sorseggiò la bevanda dedicando la propria attenzione al giornale. Una pagina dopo l’altra gli scattarono davanti le bazzecole delle notizie dalla Terra, le notizie dagli agglomerati, le notizie locali, discussioni di attualità, meccanica pratica. Trovò le inserzioni suddivise per categoria, le opportunità di impiego, e scorse gli annunci, questi erano piuttosto scarsi: scavatore di pozzi cercasi, rimestatori di vetro, raccoglitori di bacche, diserbatori. Si chinò in avanti; eccone uno che lo interessava di più:
Selezione: quattro viaggiatori massima efficienza. Enormi profitti per lavoratori capaci; fini ben determinati in vista. Solo uomini di ingegno e disponibilità; presentarsi alle ore 10.00 meridiane alla Old Solar Inn e chiedere di Belisario.
Jarvis lesse di nuovo il paragrafo, traducendo le frasi ambigue in significati più precisi. Guardò l’orologio: ancora tre ore. Lanciò un’occhiata alla via, al cameriere, bevve un sorso dal boccale, e si dispose a studiare il giornale dell’industria agricola e mineraria.
Due ore più tardi il secondo sole, una sfera bianca azzurrognola, sorse in fondo a Riverview Way, brillando di luce incerta attraverso la foschia; e la popolazione della città cominciò ad apparire. Jarvis lasciò silenziosamente il Café e si avviò lungo Riverview Way, al sole. Il caldo e il moto sciolsero il pulsare all’anca; quando raggiunse la passeggiata sul fiume camminava senza difficoltà. Girò a destra, oltre la Memorial Fountain, ed ecco la Old Solar Inn, che si affacciava sull’acqua verso le rive scoscese di marmo grigio.