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Un uomo snello ed elegante con un giubbotto color vino e pantaloni aderenti si alzò in piedi, ed entrò nella stanza interna.

«E così quello è Paul Pulliam,» sussurrò l’uomo dalla faccia rotonda. «Sono sei anni che mi chiedo chi sia, dai tempi della faccenda di Myknosis.»

«Chi è quel vecchio, il becchino?» chiese Jarvis.

«Non ne ho idea.»

«In effetti,» chiese Jarvis, «chi è Belson? Qual è l’aspetto di Belson?»

«In verità,» disse l’uomo dalla faccia rotonda, «ne so ancora meno, a questo riguardo.»

Venne chiamato il secondo uomo, poi il terzo, il quarto, e infine: «Gilbert Jarvis!»

Jarvis si alzò in piedi, chiedendosi, per mille saette, come facessero a conoscere il suo nome proprio.

Attraversò la soglia e si trovò in un’anticamera il cui unico mobilio era una bilancia. Il vecchio in nero disse: «Se non ti dispiace, vorrei conoscere il tuo peso.»

Jarvis salì sulla bilancia; sul quadrante si illuminò la cifra 163, che il vecchio registrò su un libro. «Molto bene, ora ti pungo l’orecchio» Jarvis afferrò lo strumento, il vecchio strillò: «Calma, calma, calma!»

Jarvis esaminò lo strumento di vetro e metallo, poi lo restituì con un ghigno da lupo. «Io sono un uomo prudente; non intendo farmi sparare droghe nell’orecchio.»

«No, no,» protestò il vecchio, «mi serve solo una goccia per determinare le caratteristiche del sangue.»

«Perché è importante?» chiese Jarvis cinicamente. «Secondo la mia esperienza, se un uomo sanguina, ebbene tanto peggio, e che sanguini fin quando non smette, oppure resta a secco.»

«Belisario è un padrone sollecito.»

«Non voglio padroni» disse Jarvis.

«Un mentore allora, un mentore sollecito.»

«Io penso da solo,» disse Jarvis.

«Che il diavolo mi trascini alla morte!» esclamò il vecchio. «Sei un uomo difficile da accontentare.» Mise la goccia prelevata dall’orecchio di Jarvis in un analizzatore, scrutò il quadrante. «Tipo 0… Indice 96… Granuli B… Molto bene, Gilbert Jarvis, molto bene davvero!»

«Bah,» disse Jarvis, «sono queste tutte le prove a cui Belisario sottopone un uomo, il peso e il sangue?»

«No, no,» disse il vecchio con serietà. «Questi sono solo i preliminari; ma permettimi di farti le mie congratulazioni, per ora sei assolutamente adatto. Adesso vieni con me e aspetta; tra un’ora andremo a pranzo e discuteremo il resto del problema.»

Dei candidati originari ne rimanevano solo otto dopo l’eliminazione preliminare. Jarvis notò che tutti e otto erano approssimativamente del suo stesso peso, con l’eccezione di Omar Gildig che pesava duecentocinquanta o forse più.

Il vecchio in nero li convocò per il pranzo; in otto sfilarono in un salone verde e rotondo e presero posto a un tavolo ugualmente verde e rotondo. Il vecchio diede un segnale e nelle fessure di servizio apparvero vino e stuzzichini. Assunsero un’aria di cordialità. «Dimentichiamo il motivo della nostra presenza qui,» disse. «Godiamoci il buon cibo e quanto cameratismo possiamo arrecare a questa occasione.»

Omar Gildig sbuffò, un’ampia smorfia che gli fece abbassare il naso sulla bocca. «E a chi interessa il cameratismo? Vogliamo conoscere quello che ci riguarda. Cos’è questa faccenda che Belson ha in programma?»

Il vecchio scosse serenamente la testa. «Siete ancora in otto… e a Belisario ne servono solo quattro.»

«Allora vai avanti con le prove; ci sono cose migliori da fare invece di saltare attraverso questi cerchi da bellimbusti.»

«Fino a ora non ci sono stati cerchi,» disse il vecchio gentilmente. «Sopportate insieme a me un’ora ancora; nessuno di voi otto se ne andrà senza ricompensa, in un modo o nell’altro.»

Jarvis girò lo sguardo di volto in volto. Gildig; il vecchio Tixon, scaltro e sprezzante, o Capitano Pardee, come si faceva chiamare; l’uomo dalla faccia rotonda e gli occhi da gufo; un giovane biondo e sorridente, come una ragazza in abiti maschili; due anonimi silenziosi; un negro alto e sottile come una matita, che per quanto parlava avrebbe potuto essere muto.

Venne servito il cibo: bistecchine di selvaggina locale, un piccolo vassoio di baccelli tostati con salsa di erbe e mitili tritati. Effettivamente le porzioni erano così piccole che stimolarono appena l’appetito di Jarvis. Poi fu la volta di bicchieri di ponce rosso ghiacciato e di mezzelune di carne bianca brasata, ognuna con una protuberanza color rosso acceso a entrambe le estremità, che nuotavano in una salsa piccante.

Jarvis sorrise tra sé e diede un’occhiata attorno al tavolo. Gildig ci si era buttato con gusto, così come il sottile uomo di colore; uno o due degli altri stavano mangiando con maggiore diffidenza. Jarvis pensò che non si sarebbe lasciato cogliere di sorpresa altrettanto facilmente, e giocherellò col cibo; e vide con la coda dell’occhio che Tixon, il giovane biondo e l’uomo dalla faccia rotonda si astenevano come lui.

Il loro ospite li guardò con espressione addolorata. «Vedo che questo piatto non è popolare.»

L’uomo dalla faccia rotonda disse con voce lamentosa: «Certo sono delle insolite cattive maniere, avvelenarci con i granchiolini di palude di Fenn.»

Gildig sputò il boccone. «Veleno!»

«Tranquillo, Conrad, tranquillo,» disse il vecchio sogghignando. «Questi non sono ciò che pensi.» Allungò una forchetta, ne infilzò uno sul piatto di Conrad, l’uomo dalla faccia rotonda, e lo mangiò. «Vedi, ti sbagli. Forse questi somigliano ai granchiolini di palude di Fenn, ma non lo sono.»

Gildig fissò sospettoso il piatto. «E cosa pensavi che fossero?» chiese a Conrad.

Conrad prese un boccone e lo esaminò minuziosamente. «Su Fenn, quando un uomo vuole averne un altro in proprio potere per un giorno o una settimana si procura questi — o granchiolini come questi — nelle paludi. Il principio tossico è in queste sacche rosse.» Allontanò il piatto. «Granchiolini di palude oppure no, mi tolgono comunque l’appetito.»

«Eliminiamoli, allora,» disse il vecchio. «Alla prossima portata, ad ogni modo… un’infornata di capponi, se ben ricordo.»

Il pasto proseguì; il vecchio non fece servire altro vino. «Perché,» spiegò, «ci attende una prova di abilità; è indispensabile che siate in possesso di tutte le vostre facoltà.»

«Un sistema complicato per riempire un ruolo di ingaggio,» borbottò Gildig.

Il vecchio si strinse nelle spalle. «Io agisco per conto di Belisario.»

«Belson, vuoi dire.»

«Chiamatelo col nome che vi pare.»

Conrad, l’uomo dalla faccia rotonda, disse pensosamente: «Belson non è un padrone facile.»

Il vecchio parve sorpreso. «Forse Belson — come lo chiamate voi — non vi frutta grossi profitti?»

«Belson non accetta l’interferenza di nessuno, e Belson non dimentica mai un torto.»

Il vecchio rise di un risolino lugubre. «Questo fa di lui un uomo facile da servire. Obbeditegli, non fategli torti, e non temerete mai la sua collera.»

Conrad alzò le spalle, Gildig sorrise. Jarvis teneva gli occhi ben aperti. In quella faccenda c’era molto più di un ruolo da riempire, più di un profitto da ottenere.

«Ora,» disse il vecchio, «se non vi dispiace uno alla volta, per questa porta. Omar Gildig, tu sarai il primo.»

Gli altri sette restarono a tavola, fissandosi a disagio con la coda dell’occhio. Conrad e Tixon — o Capitano Pardee — parlavano con leggerezza; il giovane biondo si unì alla conversazione; poi un tonfo fece sollevare a tutti lo sguardo, e la conversazione si interruppe bruscamente, per riprendere dopo una pausa, alquanto zoppicante.

Apparve il vecchio. «Adesso tu, Capitano Pardee.»

Il Capitano Pardee — o Tixon — lasciò la stanza. I sei rimasti restarono in ascolto; non ci fu più alcun suono.

Il vecchio convocò poi il giovane biondo, poi Conrad, poi uno degli anonimi, il negro alto, l’altro anonimo, e finalmente ritornò dove Jarvis sedeva da solo.