Il barista si girò per versare due whisky lisci a una coppia di sogghignanti magazzinieri. «Troppo fragile. Se lo comprassi e uno di questi ubriachi lo rompesse, avrei perso venti franchi.»
«Venti franchi?» chiese Allixter costernato. «Non è cifra da pronunciare assieme a questo gioiellino. Diamine, per venti franchi venderei prima il mio orecchio.»
«D’accordo.» Buck il barista agitò giocosamente un coltello.
Allora Allixter pensò di fare leva sulla cupidigia dell’uomo. «Questo stesso oggetto mi costa cinquecento franchi alla fonte.»
Il barista gli rise in faccia. «Voi ragazzi della squadra teletrasporto cantate tutti la stessa canzone. Trovate un gingillo da qualche parte vicino alle stazioni, lo riportate indietro di contrabbando attraverso il teletrasporto, raccontate una frottola fantasiosa su quanto vi costa, e lo rifilate al primo babbeo che vi ascolta.» Si versò un bicchiere d’acqua e lo bevve strizzando l’occhio ai magazzinieri.
«Già una volta sono stato fregato. Ho comprato un animaletto da Hank Evans, diceva che sapeva ballare, diceva che conosceva tutte le danze dei nativi di Kalong, e davvero sembrava che sapesse ballare. Ho dato come anticipo quarantadue franchi per quell’animale. Poi ho scoperto che aveva i piedi piagati per la nuova gravità, e stava saltellando da un piede all’altro per alleviare il dolore. Erano queste le danze.»
Allixter si mosse a disagio, gettò un’occhiata alla porta da sopra la spalla. Sam Schmitz, lo spedizioniere, già da un’ora stava facendo ronzare il suo distintivo, e Sam era un uomo impaziente. Si riappoggiò al banco, sfoggiando un’aria indifferente. «Guarda attraverso quali colori passa questo birbantello… ecco! Quel rosso! Hai mai visto niente di così luminoso? Pensa che effetto farebbe al collo di una signora!»
Kitty, la bionda e fasciatissima entraîneuse, disse in un contralto mozzafiato: «Credo che sia incantevole. Io sarei orgogliosa di portarlo.»
Il barista prese di nuovo in mano la bolla. «Io non ne conosco di signore.» La esaminò dubbioso. «È davvero un gingillo grazioso. Bene, forse sgancerò venti franchi.»
Lo schermo alle sue spalle ronzò. Accese audio e doppio visore assieme senza aspettare prima l’identificazione dell’autore della chiamata, poi spostò di fianco la propria mole. Allixter non ebbe il tempo di abbassare la testa. Sam Schmitz lo fissò faccia a faccia.
«Allixter!» latrò Schmitz. «Hai cinque minuti per venire a rapporto. Dopo, me ne infischio!» Lo schermo rimase vuoto.
Allixter osservò da sotto le scure sopracciglia aggrottate il barista che lo guardava placidamente. «Visto che vai di fretta,» disse Buck, «facciamo venticinque franchi. È un ciondolo carino.»
Allixter si alzò, continuando a fissare il barista. Fece passare la bolla da una mano all’altra. Buck tese le braccia allarmato. «Piano… potrebbe rompersi.» Affondò una mano nella cassa. «Ecco i tuoi venticinque franchi.»
«Cinquecento,» disse Allixter.
«Non posso,» disse il proprietario del bar.
«Fai quattrocento.»
Buck scosse la testa, fissando Allixter con occhi astutamente stretti. Allixter si voltò, uscì dal bar senza una parola. Il barista aspettò immobile come una statua. La faccia lunga e scura di Allixter si affacciò alla porta. «Trecento.»
«Venticinque franchi.»
Allixter contorse la faccia in un’espressione di agonia e se ne andò.
Nella via si fermò. Il deposito, un edificio enorme a forma di cubo, si levava a picco nel sole invernale, dominando i quartieri periferici piuttosto malfamati dell’Hub. Dalla sua base si dipartivano i magazzini, scintillanti massicciate di alluminio lunghe ognuna un quarto di miglio. Camion e rimorchi strofinavano il muso contro le campate laterali come sanguisughe rosse e azzurre.
I tetti dei magazzini servivano da ponti di carico, dove caricatori flessibili stipavano le stive delle navi spaziali con prodotti provenienti da un centinaio di mondi. Allixter rimase a guardare un momento l’attività, sapendo che per tutta l’attività visibile, nove decimi del traffico passavano non visti sul teletrasporto, diretti a stazioni terrestri continentali, a stazioni tra i pianeti, tra le stelle.
«Accidenti!» disse Allixter. Andò senza fretta al transito sull’angolo considerando la piccola bolla. Forse avrebbe dovuto venderla, venticinque franchi significavano ventiquattro franchi di guadagno. Respinse l’idea. Un uomo poteva portare solo tanto così sul teletrasporto, e gli spettava un profitto decente per la sua impresa.
La bolla era in effetti una sorta di creatura marina che era stata buttata dal mare sulle spiagge rosa di… Allixter non ricordava il nome del pianeta, ma il codice della stazione era 9-3-2. La rimise nella sacca, entrò nel vano del transito, sterzò, salì e sbucò d’un tratto sul ponte del deposito amministrativo.
A pochi passi c’era il cubicolo di vetro dove Sam Schmitz, il Caposervizio e Spedizioniere, sedeva su un alto sgabello. Allixter fece scivolare indietro un pannello, e disse: «Salve, Sam,» con voce gentile. Schmitz aveva una faccia tonda e grassoccia, rossa e feroce. Aveva la mandibola sporgente e l’espressione generale di un bulldog.
«Allixter,» disse Schmitz, «sarai sorpreso. Qui attorno stiamo diventando più severi. Voi ragazzi della squadra riparazioni vi siete messi in testa l’idea di essere un pugno di aristocratici, responsabili solo davanti a Dio. Questo è un errore. Tu dovevi essere in servizio di emergenza tre ore fa. Per due ore il Capo mi ha masticato il fondoschiena perché voleva un meccanico. Ti trovo nel bar di Buck. Io voglio essere buono con voi ragazzi, ma dovete rigare diritto.»
Allixter ascoltava senza concentrazione, annuendo al momento giusto. Dove avrebbe potuto provare a vendere la bolla? Forse avrebbe dovuto aspettare di avere una settimana di ferie, e portarla giù a Edmonton o a Chicago. O meglio ancora l’avrebbe messa da parte fino a quando avesse accumulato qualche altro oggetto, e poi sarebbe andato a Parigi, o a Città del Messico, dove girava un sacco di soldi. Schmitz si fermò per riprendere fiato.
«C’è niente sul ruolino di marcia, Sam?» chiese Allixter.
La reazione lo fece trasalire. Il mento di Sam tremolò per la collera. «Dannazione! Di cosa credi che abbia parlato negli ultimi cinque minuti?»
Allixter riandò indietro disperatamente con la memoria, racimolando una parola qui, una frase là. Si massaggiò la guancia e la mascella sottile, e disse: «Non ho afferrato proprio tutto, Sam. Forse se provassi e ripetermelo… Esattamente qual è la lamentela?»
Sam levò le braccia al cielo, disgustato. «Vai a trovare il Capo. Ti farà lui il quadro della situazione. Io sono esausto.»
Allixter attraversò il ponte, girò per un corridoio, si fermò davanti a un’alta porta verde con lettere di bronzo che dicevano: DIRETTORE DI SERVIZIO E MANUTENZIONE. AVANTI.
Spinse il bottone. La porta si aprì e Allixter entrò nell’ufficio esterno. La segretaria alzò lo sguardo. «Il Capo mi sta aspettando,» disse Allixter.
«Non è un segreto.» Poi disse nella griglia: «Scotty Allixter è qui.» Ascoltò all’auricolare, fece cenno ad Allixter, e fece scattare la serratura della porta interna. Allixter la fece scivolare indietro ed entrò nell’ufficio. L’aria, come sempre, aveva un odore acre di medicinali che irritava il naso di Allixter.
Il Capo era un uomo di bassa statura, costruito secondo uno schema angolare. La sua pelle era grinzosa e gialla, disseccata come un limone vecchio. Gli occhi erano delle palline nere che scattavano come per una sorta di elettricità interna. Rade ciocche di capelli crespi gli crescevano sulla testa, alcune bianche, alcune nere, senza ordine apparente. La pelle del collo era rugosa come quella di un alligatore, e il lato destro era deturpato fino al mento bitorzoluto da una spessa striscia di tessuto cicatriziale. Allixter non aveva mai visto il Capo ridere, non l’aveva mai sentito parlare se non con una secca, monotona voce nasale.