«Interessante,» disse Keith. «Come funzionano?»
«Inducono un odore corporeo di natura estremamente sgradevole. Non tutti reagiscono in modo identico allo stesso odore; è coinvolto un alto grado di formazione sociale, ecco perché i tre colori.» Ridacchiò vedendo l’espressione scettica di Keith. «Non sottovalutare queste pillole. Gli odori creano uno sfondo subconscio alle nostre impressioni; un odore offensivo induce irritazione, avversione, diffidenza; osserva il colore delle pillole: indica i gruppi razziali più fortemente influenzati. Bianco per i Caucasici, giallo per i Cinesi, marrone per i Negri.»
«Avrei pensato che la puzza è puzza,» disse Keith.
Sebastiani strinse le labbra in un atteggiamento didattico. «Queste naturalmente non sono formule infallibili. I Cinesi del nord e i Cinesi del sud reagiscono in modo diverso, e così i Lapponi, i Francesi, i Russi e i Marocchini. I Negri americani sono culturalmente Caucasici. Ma non serve che dica altro; sono certo che il funzionamento delle pillole ti è chiaro. Una dose dura due o tre giorni, e la persona colpita è ignara del proprio stato.» Rimise le fiale nella valigia, e ripensandoci tirò fuori una torcia ammaccata. «E questa naturalmente è top-secret. Mi stupisco che ti permettano di usarla. Quando premi questo bottone, una torcia. Togli la sicura, premi di nuovo il bottone,» ributtò la torcia nella valigia «un raggio mortale. O se preferisci un laser che proietta raggi rossi e infrarossi ad alta intensità. Se cerchi di aprirla l’esplosione ti stacca il braccio. Si ricarica infilandola in una qualsiasi presa di corrente alternata. L’era dei proiettili è alla fine.» Chiuse la valigia con uno scatto, si alzò in piedi, fece un cenno brusco con la mano. «Aspetta Parrish nell’ufficio esterno; ti accompagnerà al tuo aeroplano. Conosci i tuoi obiettivi. Questo è un affare disperato, un affare sconsiderato. Deve piacerti, o finirai a lavorare all’ufficio postale.»
A 6°34ʺ di Latitudine Nord, e 13°30ʺ di Longitudine Ovest, l’aereo si incontrò all’alba con un rollante sottomarino nero. Keith scese su un aggeggio composto da un sedile, un piccolo motore, e quattro eliche rotanti. Il sottomarino si inabissò con Keith a bordo, e riemerse ventitré ore dopo per lasciarlo a galla in una canoa a vela; poi si inabissò di nuovo.
Keith era da solo nell’Atlantico Meridionale. L’alba cingeva l’orizzonte, e a Est si stendeva la massa scura dell’Africa. Keith orientò la vela al vento e la scia spumeggiò a poppa.
Il sorgere del sole illuminò una costa arida e sabbiosa, sulla quale si vedevano poche capanne di pescatori. A Nord, sotto batuffoli di fogliame verde e nero, scintillavano i bianchi edifici di Dasai. Keith guidò la canoa sulla spiaggia, e arrancò in mezzo alle dune sabbiose fino alla strada costiera.
C’era già un traffico considerevole: donne che camminavano faticosamente a fianco degli asini, giovani in bicicletta, di tanto in tanto una piccola automobile d’epoca, una volta un costoso idroscivolante Amphitrite, nuovo, con un soffice sibilo sussurrato.
Alle nove, attraversando il fiume Dasa, marrone e lento, Keith entrò a Dasai, un piccolo porto costiero abbagliato dal sole, ancora intoccato dai cambiamenti che avevano trasformato Fejo. Edifici a due e tre piani di stucco bianco, sostenuti da arcate, si affacciavano sulla via principale, divisa in due da una striscia di palme, rododendri e oleandri. C’erano due hotel, una banca, un’autorimessa, negozi eterogenei e palazzi di uffici. Un depresso funzionario di polizia con un elmetto bianco dirigeva il traffico, che in quel momento consisteva in due cammelli condotti da un Beduino lacero. Un tozzo piedistallo sosteneva quattro enormi fotografie di Adoui Shgawe, il «Beneamato Premier della nostra Nazione, il Grande Faro dell’Africa». Sotto, vistosamente più piccole, c’erano le fotografie di Marx, Lenin e Mao Tse-Tung.
Keith svoltò in una via laterale, camminò fino all’argine del fiume. Vide moli decrepiti, una mezza dozzina di ristoranti, birrerie giardino e cabaret costruiti sull’acqua, su piattaforme ombreggiate da tettoie ricoperte di foglie di palma. Chiamò con un cenno un ragazzo poco lontano, che gli si avvicinò con cautela. «Quando arriva la lancia che scende il fiume da Kotoba, e dove attracca?»
Il ragazzo puntò un dito magro e storto. «Quello è il molo, signore, appena passato l’Hollywood Café.»
«E quando deve arrivare, la lancia?»
«Questo non lo so, signore.»
Keith gli lanciò una moneta, e si diresse al molo, dove apprese che in verità la lancia sarebbe arrivata di sicuro alle due del pomeriggio, certamente non più tardi delle tre, e senza alcun dubbio prima delle quattro.
Keith rifletté. Se Tamba fosse arrivato alle due, o anche alle tre, probabilmente avrebbe proseguito per Fejo, a sessanta miglia lungo la costa. Se l’imbarcazione avesse tardato avrebbe invece potuto decidere di fermarsi a Dasai per la notte, lì all’Hotel Grand Plaisir, distante solo pochi passi.
Il Problema era: dove intercettare Tamba Ngasi? Lì a Dasai? All’Hotel Grand Plaisir? In viaggio verso Fejo?
Nessuna di quelle possibilità allettava Keith. Ritornò sulla via principale. Un tabaccaio gli assicurò che non si potevano noleggiare altre automobili all’infuori dei tre antichi tassì cittadini. Gli indicò in fondo alla via una vecchia Citroen nera ferma all’ombra di un’enorme sapotiglia. L’autista, un vecchio sottile in calzoncini bianchi, maglietta azzurra sbiadita e scarpe di tela, poltriva accanto a una bancarella che vendeva ghiaccio tritato e sciroppo. La proprietaria, una donna enorme con un vestito sgargiante nero, oro e arancione, lo sollecitò con lo scacciamosche a rivolgere l’attenzione a Keith. L’uomo si mosse riluttante lungo il marciapiede. «Il signore desidera essere condotto a destinazione?»
Keith, nella parte del barbaro proveniente da una terra di confine, si sfregò dubitoso il lungo mento. «Proverei il tuo veicolo, a patto che tu non provi a imbrogliarmi.»
«I prezzi sono fissi,» disse l’autista senza entusiasmo. «Tre rupie per il primo giro di tassametro, una rupia per ogni giro successivo. Dove desideri andare?»
Keith salì sul tassì. «Segui la strada lungo il fiume.»
Uscirono sferragliando dalla città, per una strada in terra battuta che correva per lo più parallela al fiume. La campagna era arida e polverosa, infestata di rovi, con qua e là un massiccio baobab. Passarono le miglia, e l’autista divenne nervoso. «Dove intendi andare, signore,?»
«Fermati qui,» disse Keith. Incerto, l’autista rallentò. Keith prese del denaro dalla borsa che portava alla cintura. «Desidero guidare il tassì. Da solo. Tu puoi aspettarmi sotto quell’albero.» L’autista protestò con veemenza. Keith lo costrinse ad accettare cento rupie. «Non discutere. Posso stare via parecchie ore, ma riavrai il tuo tassì sano e salvo e altre cento rupie se aspetti qui.»
L’autista scese e zoppicò nella polvere fino all’ombra di un albero della gomma, alto e giallo, e Keith ripartì lungo la strada.
La campagna diventava sempre più piacevole. I palmizi fiancheggiavano l’argine del fiume; di tanto in tanto c’erano delle macchie fertili, e attraversò tre villaggi di capanne rotonde con le pareti di fango e tetti conici ricoperti di paglia. Canoe occasionali si spostavano sulla torbida acqua marrone; vide una chiatta carica di una catasta di legna, rimorchiata da una barca a remi ridicolmente inadeguata con un motore fuoribordo. Proseguì per altre dieci miglia e di nuovo la campagna divenne inospitale. Il fiume, velato dal caldo, si snodava tra gli argini fangosi dove piccoli coccodrilli si crogiolavano al sole; le rive erano soffocate dai papiri e da boschetti di larici. Keith fermò l’auto e consultò una cartina. La prima città di qualche importanza dove l’imbarcazione avrebbe potuto scaricare passeggeri era Mbakouesse, altre venticinque miglia, troppo lontano. Rimise la cartina in valigia e ne trasse un vasetto di brillantina, o almeno così sosteneva l’etichetta. Lo considerò per un momento, e stabilì un piano d’azione.