Gardius disse: «Immagino che prima abbiate stabilito una sfera a due settimane di raggio da Maxus, e abbiate fatto una lista dei pianeti abitati compresi in quella sfera.»
«Corretto. Ce n’erano quarantasei.»
«Un’atmosfera ricca di ossigeno implica un mondo ricco di vegetazione. La stomatite suggerisce umidità. Un pianeta con paludi estese e giungle.»
«Continua.»
«Un pianeta con frutta fresca ma senza glidio. Di conseguenza un pianeta abitato non da Iarnimmici ma da Savari, Gallicretini, Congoin o Pardus. Un popolo senza grandi centri di ricerche, con piccole fabbriche che producono solo per il consumo locale, invece di progettare o creare.»
L’Alto Ricognitore fece un gesto vago. «Soltanto un mondo di quei quarantasei assolve tutte queste condizioni. E si tratta di Fell, il terzo pianeta di Ramus.»
«Fell,» disse Gardius pensieroso.
L’Alto Ricognitore disse: «Su Fell vive un popolo insolito, separato dal resto della popolazione da una superstizione locale: gli Otro. La madre di Arman era una Otro. Si dice che siano tutti quanti folli.»
Lo svincolo li guidò attraverso l’oscurità. Era da tempo passata mezzanotte. Le vie erano deserte. Un vento gelido, che odorava di scorie industriali e fognatura, sferzava loro la schiena. Gli edifici si levavano enormi, opachi e senza vita su ogni lato. Nessuna luce si mostrava sulla via, e la brina baluginava sui mattoni neri dove batteva la luce dei rari lampioni. Era difficile immaginare dell’umanità, dentro quelle masse complesse e pesanti.
Sullo svincolo erano da soli. Per quanto potessero vedere davanti a loro le vie erano deserte. I vicoli scuri che si dipartivano a intervalli erano abbandonati, umidi e freddi, senza vita. Una pioggia sottile cominciò a cadere, e il vento soffiava veli spettrali contro i lampioni.
Finalmente il portico che conduceva al campo centrale apparve nella pioggia. Due lanterne a gabbie metalliche, a ricordo di un evento passato, fiammeggiavano impetuose su ogni lato dell’arco, sibilando allo sgocciolio dell’acqua. Lasciarono lo svincolo, passarono sotto l’arco e uscirono nel campo. La pioggia cessò all’improvviso. Le tre lune si aprirono un varco tra le frastagliate nubi argentee, ma la luce si arrestò tra gli intricati profili dei tetti, e non poterono vedere la terra umida che scricchiolava e crepitava sotto i loro piedi.
Gardius finalmente trovò la sua navicella in mezzo alla dozzina di altri velivoli del campo. Alzò una mano, e abbassò la scaletta. Mardien salì, e Gardius la seguì accendendo le luci. Si guardò attorno nella cabina, dove aveva trascorso tanti giorni e notti frenetici, e sospirò, improvvisamente sopraffatto dalla malinconia e dalla frustrazione.
Energia sprecata, tempo sprecato, emozioni sprecate; come avrebbe potuto, come avrebbe potuto qualunque uomo sperare di impadronirsi del potere e della forza di Maxus? Sospirò una seconda volta, andò ai comandi, diede energia al generatore. Il nucleo di metallo pesante balzò nel centro, e cominciò a vorticare.
Il generatore gemette, aumentò di tono, gradatamente diminuì fino a divenire silenzioso. Gardius regolò i comandi per il decollo, si sedette ad aspettare la luce che gli avrebbe segnalato lampeggiando quando il rotore avrebbe raggiunto una velocità sufficiente a schiacciare i mesoni impazziti in un costante flusso di energia.
Girò la testa. Mardien era in piedi in mezzo alla cabina, estranea e fuori posto ai suoi occhi come un albero in fiore. Il suo volto era tirato e disperato. I pallidi capelli biondi erano umidi, e ricadevano in ciocche appiccicate. Gardius, con voce per quanto possibile amichevole, disse: «Ti porterò ovunque desideri, basta che l’approdo si trovi nel quadrante verso cui mi dirigo.»
Mardien non gli rispose direttamente, ma guardando nella cabina chiese: «Dove sono i miei alloggi?»
Gardius rise stancamente. «Alloggi? Sei fortunata ad avere un armadietto per i tuoi vestiti. Tirerò una tenda davanti a quell’angolo, e quelli saranno i tuoi alloggi.»
La guardò attraversare la cabina con le sue poche cose. Con uno sforzo staccò gli occhi dalla schiena flessuosa, dalle gambe snelle. Una tristezza dolce, ma remota e impersonale, lo sopraffece. Cose simili non erano per lui. La sua vita era consacrata. Non poteva permettersi distrazioni, morbide creature, ragazze bionde, nessuna proprietà che non potesse immediatamente gettare via. Doveva essere libero, senza vincoli.
Con voce sommessa Mardien disse: «Perché mi guardi in quel modo?»
Gardius sbatté le palpebre. «Come?»
«Ho fatto qualcosa di sbagliato?»
«Niente che io sappia,» fu la prudente risposta. «E comunque la tua vita ti appartiene.»
«Mi hai comprata. Io sono di tua proprietà secondo le leggi di Maxus.»
La luce diventò verde, lampeggiò. Gardius chiuse di scatto il portello, avvitò la sigillatura. Poi infilò una mano in tasca, le porse un foglio di carta rosa. «Tra dieci minuti saremo oltre la stazione di entrata, nello spazio libero. Allora udrai l’unico ordine che mai ti darò.»
Scivolò al posto del pilota, mosse i comandi. La navicella si levò da terra, su nella luce delle tre lune. Alambar precipitò, divenne un panorama dai mille toni del nero e del grigio.
L’ispezione al satellite fu breve. Poi si trovarono nello spazio. «Qual è l’ordine, Gardius?» chiese Mardien.
«Straccia il foglio rosa.»
Mardien obbedì. «Grazie, Gardius.»
«Non voglio ringraziamenti,» disse Gardius guardando lontano. «Ringrazia il ricordo di mia sorella. Ringrazia la tua bontà che ti ha fatto voler bene da lei. Hai deciso dove vuoi essere sbarcata?»
«Sì,» disse Mardien. «A Huamalpai, sul pianeta Fell.»
Due esseri umani in uno scafo di vetro e di metallo, che sfrecciano nello spazio come sogni attraverso una mente addormentata. Due personalità spinte una contro l’altra, in una forzata intimità, nell’intimità dell’amicizia o nella difficile e spiacevole intimità dell’astio.
Prima l’intimità fisica. Uno si muove, e l’altro è conscio del movimento. Un respiro, un sospiro, sono rumori nel silenzio. Quando uno fa un passo, la direzione del suo passo è condizionata dallo spazio che l’altro occupa.
Poi la solitudine, che chiunque viva sulla superficie di un pianeta non può concepire. È per terra, e guarda in su, verso la volta del cielo notturno. Ma se questa volta fosse anche sotto di lui, se lo circondasse, e se fosse da solo in quel nero vuoto, con le stelle che si allontanano all’infinito?
E se fosse rinchiuso in uno scafo? Questa è la vita in una navicella spaziale. Un compagno sarebbe legato a lui psichicamente, importante e molteplice quanto lui. Forse il legame diverrebbe anche più stretto, perché il compagno sarebbe l’unica variante nell’area ordinata a disposizione.
E infine l’inattività, la mancanza di occupazione. In circostanze ordinarie un uomo che si trovasse accanto a una ragazza bionda e sinuosa si lascerebbe prendere dalla passione. Sarebbe incomprensibile, non umano, se accadesse altrimenti.
Ma le circostanze erano uniche. Gardius aveva consacrato la sua vita, e la concentrazione rapita in cui viveva sembrava annullare la sua virilità più manifesta. Era consapevole delle possibilità esistenti. Talvolta i suoi occhi si posavano sulla curva di un fianco, o sulla linea della gamba, ma non provava alcuno stimolo.
Mardien, che aveva accettato il contatto fisico come inevitabile corollario della schiavitù, considerava il suo disinteresse sconcertante. Poiché aveva una normale vanità, la situazione era sottilmente fastidiosa. La trovava sgradevole? Forse Gardius era un uomo contro natura? Guardando di sottecchi le ampie spalle, la corta zazzera scura di capelli spettinati, la bocca chiusa come una morsa e i gesti essenziali e controllati, sapeva che quell’ipotesi non era corretta.
Forse era legato a un’altra donna.
«Gardius?»
Gardius si voltò. I suoi occhi erano inespressivi come pezzi di marmo. «Sì?»