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«Come mai?»

La fronte piatta del guidatore si corrugò. «Ebbene, è difficile a dirsi.» Esitò.

«Ho sentito varie voci,» disse Gardius.

Il guidatore sbuffò. «Probabilmente sono vere, qualsiasi cosa dicano. Sono della strana gente, e io non vorrei averci niente a che fare, anche se non fossero pazzi. Si dice che non abbiano anima, e così sono impazienti di rubarla a noi delle Terre Basse, e mercanteggiarla per tutta la comunità fino a che tutti ne abbiano guadagnato.»

Gardius emise gli appropriati suoni di sbalordimento.

«Adesso dicono che c’è un grande Evangelo venuto dallo spazio,» disse il guidatore, «e sta facendo miracoli fra di loro, e vengono da tutte le Terre Alte per ascoltarlo e sospirare e gridare come spettri della palude. Naturalmente,» aggiunse con modestia, «sono soltanto voci che ho sentito, ma vado in città spesso, e non mi si prende facilmente in giro.»

Gardius chiese: «E come può un uomo comune verificarlo con i propri occhi?»

Il guidatore ci pensò un poco. «Ci sono diversi modi. Può andare a piedi lungo il Sentiero della Fortitudine, che sale dritto fuori da Huamalpai, oppure può andare in auto per quaranta miglia sotto il ciglio del Dirupo fino alla Tacca di Nuathiole. C’è una strada che è percorribile in auto, soltanto che quando arriva su sulle Terre Alte è un po’ malandata, così dicono.»

Gardius guardò di traverso la scogliera. «Perché non in volo?»

«Questo è il terzo modo, e stavo proprio per dirtelo. C’è un hangar a Huamalpai che noleggia velivoli — costruiti dagli schiavi su Maxus, devo dirtelo — e se puoi pagare il noleggio puoi sfrecciare su come un uccello.»

Quando finalmente l’autocarro si fermò a Huamalpai, Ramus era basso e rosso cupo, e il cielo tendeva al magenta. Gardius scese dall’alta cabina, e prese commiato dal guidatore.

Rimase in silenzio per un momento, sfregandosi il mento con gli occhi fissi sul ciglio del Dirupo di Alam.

Arman era così vicino. Perché attendere? Si guardò attorno.

In fondo alla via sorgeva il palazzo di Re Daurobanan, un gigantesco accalcarsi di cupole, panoplie, colonne, balconate e volute rococò. Più vicini c’erano i negozi e i mercati, vari luoghi d’affari, tutti con le facciate quadrate di legno chiaro scolpito. Gardius fermò un passante, e apprese l’ubicazione dell’hangar.

Ascoltò le informazioni, girò lungo l’argine di un fiume color sangue, oltrepassò una trasandata fila di moli e banchine frettolosamente rizzati nel fango. Quando riuscì a trovare l’hangar e ad affittare un velivolo, era già scesa la notte.

Il cielo era di una sfumatura color melanzana, con un bagliore color lavanda che rifletteva nel fiume una debole luminescenza.

I comandi del velivolo erano un modello di Maxus. Gardius sollevò il velivolo dritto nell’aria calda, su, su, sempre più su.

Huamalpai si allontanò, un disordinato spaglio di case su e giù dalle colline.

Ancora più su, fino alle Terre Alte di Alam. Oltrepassò il bordo dell’altopiano, e scrutò incuriosito nelle tenebre. L’aspetto della regione era reso indistinto dall’oscurità, ma percepiva un vasto pianoro ondulato fino all’orizzonte.

Spruzzi di luci splendevano qui e là, luci di tutti i colori, che ammiccavano di rosso, di verde, azzurro, giallo, porpora, come se ogni villaggio fosse un grande carnevale.

Da qualche parte là sotto c’era Arman. Dove? Gardius guardò accigliato le luci colorate. Arman avrebbe sbrigato i suoi affari nel modo più discreto possibile, certamente consapevole del lungo braccio della vendetta di Maxus. Se si fosse stabilito tra gli Otro qualunque domanda posta da uno straniero, per quanto casuale, avrebbe destato sospetti.

Mardien doveva sapere dove si nascondeva Arman. Probabilmente in quel momento era al suo fianco. Trovata Mardien, avrebbe trovato anche Arman. Ma come trovare Mardien? Scendere a chiedere? No!

Gardius pensò al modo di localizzare Mardien.

Girò di scatto il braccio sulla fila dei comandi. Il velivolo scese in picchiata, e tornò in diagonale verso Huamalpai.

Gardius volava di nuovo sulle Terre Alte di Alam. Sul sedile accanto oscillava la goffa sagoma di un trasmettitore costruito dai nativi.

Fece scattare l’interruttore, si sintonizzò sui 26.733 megacicli. Trovata Mardien, trovato Arman. La risonanza del circuito penale l’avrebbe guidato da Mardien: 26.733 megacicli a bassa intensità. Intendeva localizzare, non punire, nemmeno disturbare. Ruotò l’antenna tutto intorno al nero orizzonte, e ascoltò.

Silenzio.

Aumentò l’angolatura degli ipersostentatori; il velivolo lo portò su, inclinato nell’aria. Sintonizzò di nuovo il trasmettitore, ascoltò, udì un suono breve e debole. Aumentò la potenza e il suono si rafforzò. Allineò l’antenna con la bussola — nord-ovest — voltò il velivolo, e seguì la direzione del segnale.

Mentre volava il segnale diventava sempre più forte, e Gardius diminuì la potenza perché il pizzicore non mettesse in guardia Mardien. Dieci, venti, trenta miglia passarono. Gardius guardò innanzi a sé. Le Terre Alte erano larghe solo cinquanta miglia.

Ancora dieci miglia… e l’antenna indicò verso il basso. Rimase a librarsi in quel punto, scrutò oltre il montante della cupola. Sotto di lui si stendeva l’oscurità, non interrotta da spruzzi di luci multicolori come le città altrove sull’altopiano. Non si vedeva nulla oltre all’oscurità di una regione disabitata. Esaminò con scetticismo il trasmettitore. Il quadrante era sintonizzato correttamente, ma era calibrato secondo un criterio corretto?

L’unico modo per scoprirlo era atterrare. E guardò senza alcuna attrazione la massa scura e indistinta che lo aspettava. Pensò al nottiscopio, uno dei tanti strumenti miracolosi di Maxus, attraverso il quale la notte era come il giorno. Ma ne custodivano il segreto con tutta la loro monumentale gelosia. Non era certo ad uso degli stranieri.

Gardius diede un’occhiata all’altimetro. Segnava duemila piedi dalla superficie. L’ago del tattigrafo oscillava tra il 6 e il 7 — la densità e la trama del fogliame della foresta.

Fece abbassare il velivolo con un’elevata inclinazione. Mille piedi… cinquecento… quattrocento… trecento… lo rialzò appena in tempo. Proprio sotto di lui incombeva una massa amorfa che sembrava fremere e ribollire, la chioma di un albero gigantesco.

Gardius si mosse a disagio sul sedile. Il motore del velivolo faceva poco rumore, un ronzio rotatorio, ma le eliche creavano un risucchio che poteva anche perdersi tra i rumori della foresta.

Con cautela abbassò il velivolo. L’oscurità adesso lo circondava, un poco meno fitta alla sua destra. Le eliche crepitarono tra le foglie a sinistra. Piegò a destra. Le eliche ruotarono nell’aria soffice, e Gardius scese al suolo senza altri impedimenti.

Saltò a terra, si fermò accanto al velivolo, in tensione, in silenzio, scrutando l’oscurità. L’aria era quieta, umida, odorosa di un balsamo non familiare, sufficiente a ricordargli che camminava per un mondo sconosciuto.

I suoi occhi si abituarono all’oscurità, e si accorse che il buio non era affatto completo, e che il legno marcescente generava un lucore azzurro fosforescente parallelo al terreno.

Gardius esitò. Se abbandonava il velivolo rischiava di non ritrovarlo. Una volta fuori dal suo campo visivo — un centinaio di piedi nella semioscurità — avrebbe potuto vagare per ore attraverso la foresta.

Ritornò nella cabina, inviò gli impulsi più deboli a ventisei punto settecento trentatré millesimi di megacicli e il segnale ritornò forte e chiaro. Allineò esattamente l’antenna, si sedette a riflettere. I suoi occhi caddero sulla bussola della navicella, un aggeggio magnetico e quindi utile allo scopo.

Staccò la bussola, l’allineò all’asse dell’antenna. Nord-nord-ovest.