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Gardius giacque inerte, semincosciente, privo di volontà, di energia, di reminiscenze.

La breve notte di Fell si attenuò, ritirandosi davanti all’alba color prugna. Gardius rabbrividì, destato dai profili emergenti delle fronde della giungla, che agitandosi nella brezza si strofinavano, raspavano e stormivano in un milione di piccoli rumori.

Dolorosamente distese le gambe, si sistemò in una posizione più comoda, cominciò a lavorare ai nodi. Riusciva a sentire la corda con la punta delle dita. Un filo alla volta la indebolì; alla fine diede uno strattone e la corda si spezzò.

Allungò la mano, si appoggiò e si alzò in posizione eretta su un ramo. Con cautela controllò lo stato delle ossa, brontolando ogni volta che incontrava una contusione. Sembrava che non ci fosse niente di rotto. Tese il collo, guardò a terra. La luce ancora non era penetrata. Sotto di lui le immagini erano indistinte.

Prese in considerazione di scendere lungo il tronco dell’arbusto. Poi, ricordando i ragni, esitò. Scrutando attraverso i rami scorse una ragnatela. Gettò un ramoscello nella ragnatela e una creatura nera grossa come un gatto uscì a precipizio dall’ombra una zampa dopo l’altra, rimbalzò sul ramoscello; poi, lentamente, gettando via il ramoscello con rammarico, se ne ritornò alla tana buia.

Gardius distese braccia e gambe, si mise più comodo sul ramo. Era vivo, e già era più di quanto si fosse aspettato. Dai rami dell’albero delle sfere riusciva a vedere a circa cinquanta piedi prima che lo sguardo si perdesse nel grigioverde e nell’intrico color prugna. L’aria odorava di terra fredda e bagnata, con tracce di muschio animale e un dolce putridume vegetale.

Ramus, il sole rosso, galleggiava alto. Gardius si mosse dal suo trespolo, si arrampicò un poco più in alto tra i rami. Uno strido gutturale echeggiò nella giungla, seguito da un grande fracasso. Gardius rimase immobile, fisicamente spaventato per la prima volta da quando si era ridestato alla coscienza.

Dopo un momento si arrampicò ancora per alcuni piedi, e altri grandi globi che fungevano da baccelli si staccarono e volarono via nella luce rossa del sole.

Gardius fece l’inventario della sua borsa: un lungo coltello a serramanico, un alimentatore per il raggio termico, l’ormai inutile sacco dell’iniettore, un rasoio a secco, denaro, una fionda per lanciare dardi avvelenati, una dozzina di dardi, una scatola di compresse vitaminiche. Molto poco per aiutarlo ad attraversare cento miglia di fango molle, boscaglia e foresta intricata, e niente con cui nutrirsi. Si chiese come sarebbero stati i ragni. Non aveva modo di accendere un fuoco. Avrebbe dovuto mangiarli crudi.

Guardò lontano nella direzione della terraferma. Quel giorno Arman sarebbe partito per Maxus con seicento Otro. Quel giorno a che ora, mattina, pomeriggio, sera? Gardius guardò attorno a sé la giungla, in alto il cielo rosato, e sotto la melma.

Arman, Mardien, gli Otro, Maxus, avevano tutti perduto importanza, come eventi visti dall’estremità sbagliata di un telescopio. E se Arman fosse partito quel giorno? Oggi, domani, ieri, era indifferente per un uomo ingoiato e scomparso. Cambiò posizione. I suoi movimenti disturbarono altre bolle, che si alzarono, vennero afferrate dalla brezza e portate lontano.

Gardius fissò i globi, la ragnatela, e i suoi pensieri presero un nuovo corso. Improvvisamente si scosse, il tempo riprese significato. Quando sarebbe partito Arman da Fell? In fretta, si disse Gardius, doveva fare in fretta. Voleva vivere.

Alcune ore più tardi diede un’ultima occhiata alla piccola radura. Da un lato erano ammucchiate le sterpaglie che aveva tagliato. Dall’altro c’era un cumulo di ragni morti, dozzine, di tutte le dimensioni, da creature color della sabbia grandi come la sua mano, agili sulle zampe elastiche, a un mostro obeso grande quasi come lui stesso.

Quello l’aveva combattuto per venti minuti di sudore, usando il coltello e la lancia cauterizzante che aveva costruito con l’alimentatore e un lungo bastone. I due grandi occhi del ragno erano esattamente alla stessa distanza che c’era tra i due morsetti scoperti. Gardius l’aveva accecato quasi subito, ma nella creatura c’era una vitalità talmente inesorabile che era riuscita a individuare Gardius altrettanto bene senza occhi.

Con un’ostinazione esasperante e carica d’odio il ragno gli aveva dato la caccia tutt’attorno alla radura, nella melma fumante. Indietreggiando Gardius gli aveva spezzato le zampe. Finalmente il ragno era barcollato in un mucchio di peli e zampe affusolate, e Gardius era crollato, ansimando, contro il tronco dell’albero delle sfere.

Girò le spalle alla radura. Sopra la sua testa ondeggiava alto un gruppo di globi, centinaia e centinaia, ognuno assicurato con un filo di ragnatela a una corda centrale.

Non c’era più nulla che potesse trattenerlo. Scivolò sul seggiolino che aveva tagliato da un pezzo di radice, si chinò, e tagliò la corda con il coltello. La fune di ormeggio si schiantò, e il pallone sollevò Gardius dal terreno fradicio, lontano dalla radura con il mucchio di ragni morti, su nella luce rossa di Ramus.

La brezza lo afferrò e lo portò verso la terraferma.

Andò alla deriva per tutto il giorno. Il vento che soffiava verso le pianure calde lo sospingeva senza sosta. Gardius calcolava che la sua velocità si aggirasse tra le dieci e le quindici miglia all’ora. Per percorrere cento miglia ci sarebbero volute otto, dieci ore, sarebbe stata notte. Troppo tardi. Si agitò nell’imbracatura, guardò avanti, nel bagliore rosato: nient’altro che la grande scodella di melma, foglie, rami.

Ramus attraversò il cielo, scese ruotando sull’orizzonte, e finalmente Gardius vide il profilo viola delle montagne che scintillavano come lamé. Allora ritornò il pieno significato della sua esistenza, l’assoluta urgenza della sua rapidità. Ma il vento non soffiava più forte, anzi avvicinandosi la sera diminuiva, e Gardius veniva sospinto blandamente nell’aria serica.

La notte scese prima che potesse vedere sotto di sé gli appezzamenti di terra coltivata. All’istante liberò una dozzina di globi e scese a terra.

Dolorante, rabbioso, esultante, impaziente, si alzò sulla terraferma in uno dei campi spazzati dal vento e costellati di funghi immaturi. Il mazzo di bolle scomparve nella notte. Attraversò il campo al piccolo trotto, saltò un fossato, girò intorno a un campicello di granoturco, trovò una strada. In lontananza scintillava un gruppo di luci.

Con i piedi gonfi, sofferente, affamato, assetato, Gardius entrò nel villaggio. Si fermò a una taverna con i muri fatti di terra grumosa. Un’insegna appesa sopra la strada diceva Al Gaio Caunbal, con sotto un pesce fosforescente verde e giallo.

Gardius spinse la porta di assi e l’aprì; entrò in una stanza acre dell’odore di cibo e bevande. Si lasciò cadere su una sedia a un lungo tavolo, e una donna grassa e impassibile, al suo comando, gli portò stufato, pane, e birra gialla e spumosa. Si riempì la bocca, tracannò la birra, si guardò attorno per la stanza. «Dov’è il telefono?» chiese alla donna.

La faccia scura della donna si raggrinzì in uno spasmo di innocente ilarità. Indicò sopra la sua testa. «Ti sta quasi tra i capelli.»

Gardius si alzò, sfogliò la guida, compose il numero. La linea si collegò con un sibilo, una voce disse: «Spazioporto, parla Jeotsa.»

«La nave di Arman è decollata oggi?»

Ci fu una pausa, poi: «Sì, è decollata. È partita questo pomeriggio.»

Le spalle di Gardius si incurvarono Era incapace di muoversi e di parlare. La voce all’altro capo disse: «Si dice che si sia solo spostata da qualche parte su Alam. Forse è ancora sul pianeta. A quanto ne so non c’è un campo lassù, e non so dove potrebbe atterrare. Gli Otro sembra che abbiano i carboni ardenti sotto i piedi.»