«Dov’è la loro più grande pista d’atterraggio?»
«Non ne hanno. Qualche volta le aeromobili atterrano a Solveg.»
Gardius riappese. Chiamò la donna grassa «Dove posso trovare un velivolo?»
Il volto della donna mostrò interesse. «Mio figlio ti porterà dove vuoi. Ma il denaro, dov’è il tuo denaro?»
Gardius ringhiò. «Verrà pagato. Fallo venire subito qui davanti.»
Si buttò in bocca dell’altro cibo, e bevve birra fino a quando udì il ronzio e il sibilo delle eliche fuori dalla finestra.
Lasciò una moneta d’argento sul tavolo, corse all’esterno, saltò nel velivolo. «Sulle Terre Alte di Alam. A Solveg, se sai dove si trova.»
L’altopiano mostrava scure colline ondulate e valli spruzzate di luci colorate come un immenso, irreale paese dei balocchi.
Il pilota disse: «Quella è Solveg e quello è il campo. Vuoi che atterri?»
«No, basta che voli basso.»
Alla luce dell’umido satellite rosa il campo era deserto. Gardius disse: «Vai a nord, alla punta estrema delle Terre Alte.»
Volarono per venti minuti. I villaggi correvano via sotto di loro. Poi fu la volta della foresta scura, e finalmente la brughiera dove sorgeva il villino dal tetto a punta di Arman. A cento iarde di distanza giganteggiava la nave nera. La luce balenava fioca dal portello d’entrata, e da uno o due oblò. Per il resto la nave era immersa nel buio.
«Fammi scendere,» disse Gardius. «In silenzio.»
Gli venne in mente che non aveva armi. Chiese al pilota: «Hai una pistola, un raggio termico, esplosore, ionico, qualunque cosa? Ti pagherò bene.»
Il pilota lo guardò in tralice. «No. Perché hai bisogno di un’arma?» Poi, come pentendosi dell’audacia della domanda — perché Gardius, con i vestiti macchiati, la faccia smunta e contusa e gli occhi infuocati non invitava certo alla confidenza — distolse gli occhi.
Gardius non gli diede risposta. Il velivolo si posò a terra. Gardius tirò fuori un biglietto dalla borsa. «È abbastanza?»
Il pilota assentì con un borbottio, e subito si sollevò in aria.
Gardius si fermò a guardare la nave nera, barcollando un poco. Avrebbe dovuto essere lucido, vigoroso, ma aveva la vista annebbiata e si sentiva le braccia e le gambe pesanti, idropiche. La fatica gli ottundeva il cervello, impedendogli di essere vigile e attento.
Non aveva altra arma oltre al suo coltello, e Arman era sicuro di sé e arrogante sulla nave nera. Udì un rumore di passi bruschi e decisi sulla ghiaia. Ritirandosi nell’ombra vide due uomini avvicinarsi alla nave ed entrare. Dall’interno udì il clangore del metallo.
Gardius si passò una mano sul viso. Tempo… aveva bisogno di tempo per riposare, per recuperare le sue facoltà. Ma non c’era tempo.
Rinfrancò la mente, racimolò energia pensando alla sua risoluzione. Il coltello era sufficiente, avrebbe ucciso rapidamente quanto un raggio termico. E quando Arman fosse morto c’era il velivolo, che lo aspettava nel bosco, e la sua navicella al campo d’aviazione di Huamalpai, e poi lo spazio.
Trasse un respiro profondo, distese i muscoli contratti delle spalle. Il primo luogo da perlustrare era il villino…
Mentre si avvicinava la sua cautela svanì, e al suo posto insorse un’irragionevole rabbia. Perlustrare? No. Avrebbe aperto la porta, sarebbe entrato. Arman non avrebbe certo aspettato una simile visita.
Percorse il vialetto, e il bizzarro tetto a punta lo sovrastò, e giunse infine all’altrettanto bizzarra porta a tre dischi. Tirò il chiavistello, e i tre dischi ruotarono all’interno, due a destra e uno a sinistra. La luce lo inondò.
Un passo lo portò in mezzo alla stanza. Con gli occhi frugò gli angoli, dietro i lunghi mobili avvolgenti. La stanza era vuota. Aprì tutte le porte, ascoltò. Da una giungeva uno sgocciolio d’acqua, da un’altra un sussurro di vento, silenzio dalla terza.
Gardius ritornò all’esterno, guardò la nave in fondo al campo. Arman doveva essere a bordo. Con Mardien? Con seicento Otro? Da solo? La nave era circondata da un alone di imminenza, come se già si stesse staccando dal suolo. Gardius si avvicinò nell’oscurità violacea. Poteva entrare nella nave, oppure aspettare vicino al portello.
Come un fantasma salì la rampa, guardò all’interno. Davanti a lui c’era un corridoio con file di armadietti metallici. Un uomo con un grembiule verde chiaro stava spingendo involti di frutta a grappolo giù per uno scivolo. Gardius si sfilò un sandalo, gli si avvicinò e lo colpì alla testa. L’uomo si accasciò. Gardius gli tolse il grembiule, lo indossò sopra i vestiti macchiati, imbavagliò l’uomo con un fazzoletto, gli legò i polsi con la cintura, annodò assieme i lacci dei sandali e lo chiuse in un armadietto.
Si guardò attorno cercando di orientarsi. Sopra di lui il soffitto si piegava in un arco convesso: il pavimento della parte centrale del meccanismo che occupava tutta la lunghezza della nave. Lungo il perimetro c’erano delle rampe. In fondo al corridoio c’erano le stive per i passeggeri, che comunicavano tramite le rampe con il corridoio dove si trovava. Da lì saliva la doppia scaletta verso la cupola dei comandi e gli alloggi dell’equipaggio.
Gardius socchiuse appena una porta che dava in una delle stive. Alle sue orecchie giunse il rumore di una moltitudine di respiri. Chiuse la porta. Seicento Otro, drogati e stivati per il trasporto. Seicento Otro pazzi.
Per un po’ camminò, poi corse lungo il corridoio, e con il coltello in mano si arrampicò sulla scaletta. La cupola di comando era deserta.
Una luce azzurra sul pannello brillava vivida. Sotto c’era una scritta a lettere bianche: Pronto. Gardius, con la testa tesa in avanti come un animale in caccia, guardò ovunque. Dov’era Arman? E dov’era l’equipaggio?
Fece scorrere il pannello che dava sulla passerella diretta al nucleo centrale. Allora udì delle voci, vide una mezza dozzina di uomini intorno a una turbina, mentre uno di essi stringeva un perno con una chiave. Riparazioni. Dov’era Arman? Nel capannello di figure scure? Non poteva esserne sicuro. Ce n’era uno, un uomo grande e grosso, che forse…
Arman salì la scaletta dietro di lui. Gardius udì il rumore felpato dei passi, si girò di scatto con il coltello che luccicava.
Arman aveva un’arma spianata. Sorrideva, un sorriso esagerato che sembrava più una smorfia. I denti splendevano come cunei di ghiaccio. «Stai fermo, amico, stai fermo.» Abbassò la testa, lo guardò meglio. «Tu! Ancora tu?» La sua espressione cambiò. «Ero sicuro di averti ucciso.»
Gardius ondeggiò appena, spostando gli occhi dall’arma alla faccia di Arman. La morte… forse era questo che era andato a cercare, precipitandosi lì alla cieca. La morte l’avrebbe sollevato da tutti i suoi problemi. Era un pensiero debole, un pensiero di resa. Fece un piccolo passo avanti.
«Stai fermo,» disse Arman. «Dimmi, quel ragazzo non mi ha obbedito?»
«Sì,» disse Gardius. «Ti ha obbedito.»
«E tu ti sei rifiutato di cadere, e sei tornato in volo come un antrocoro?»
«Sono tornato in volo.»
«Butta quel coltello!» disse Arman. Gardius chinò lentamente la testa, piegò le spalle in una gobba. «Muoviti!» latrò Arman. «O ti stacco la mano con una fiammata!»
Gardius lasciò cadere il coltello.
«So tutto di te,» disse Arman. «Speravi di portarmi su Maxus… vivo. Per la tortura.»
Gardius non disse nulla.
«La notte scorsa,» disse Arman, «ho permesso al mio temperamento di interferire con l’intelletto. Un uomo è una proprietà di valore. Troppo di valore per gettarlo nella palude. Un uomo come te si venderà per duemila milreis ad Alambar. Perciò…» Alzò la voce. «Kyle!»
Ci fu uno scalpiccio di piedi lungo l’inferriata della passerella. Un uomo basso e tarchiato in tuta si affacciò nella stanza. Aveva un volto scuro, percorso da rughe, e occhi come prugne secche. Chiese: «Che cosa desideri?»