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Nella precedente èra geologica, la Polvere era stata un’immensa foresta di holum, l’onnipresente, dominante genere vegetale di Anarres. Il clima attuale era più caldo e più secco. Millenni di siccità avevano ucciso gli alberi e prosciugato il suolo fino a ridurlo a una polvere grigia e sottile che adesso si innalzava ad ogni soffio di vento, formando montagnole altrettanto pure di linea e altrettanto spoglie quanto ogni duna di sabbia. Gli anarresiani speravano di ridare fertilità a quel terreno mobile piantando nuovamente la foresta. Questo, pensava Shevek, in accordo con il principio di Riversibilità Causale, ignorato dalla scuola Sequenziale della fisica attualmente in auge su Anarres, ma pur sempre un elemento tacito, intimo, del pensiero Odoniano. A Shevek sarebbe piaciuto scrivere un articolo sulla relazione tra le idee di Odo e quelle della fisica temporale, in particolare l’influsso della Riversibilità Causale nel modo in cui Odo aveva trattato il problema delle finalità e dei mezzi. Ma a diciott’anni le sue conoscenze non erano sufficienti a permettergli di scrivere un articolo simile, e non lo sarebbero mai state se non si fosse affrettato a tornare alla fisica e ad andarsene via da quella maledetta Polvere.

La notte, nei campi del Progetto, tutti tossivano. Il giorno tossivano meno; avevano troppo da fare, per tossire. La polvere era il loro nemico, le particelle fini e asciutte che intasavano gola e polmoni; il loro nemico e la loro cura, la loro speranza. Un tempo quella polvere era stata all’ombra degli alberi, ricca e scura. Alla fine del loro lungo lavoro, forse lo sarebbe stata di nuovo.

Ella fa nascere la foglia verde dalla pietra,

Dal cuore di roccia la chiara acqua corrente.

Gimar canticchiava sempre un motivo, ed ora, nel caldo del tramonto, mentre tornavano al campo per la pianura, ne cantò le parole a voce alta.

— Chi? — chiese Shevek. — Chi è che fa nascere la foglia?

Gimar sorrise. Il suo viso largo e liscio era sporco e incrostato di polvere, i suoi capelli erano pieni di polvere, ed aveva un forte e simpatico odore di sudore.

— Sono nata negli Altipiani del Sud — rispose. — Dove ci sono le miniere. È un canto dei minatori.

— Minatori?

— Non lo sai? Gente che era già su Anarres quando sono giunti i Coloni. Alcuni di loro sono rimasti e sono entrati nella solidarietà. Cercatori d’oro e di stagno. Conservano ancora qualche loro festa e qualche loro canto. Il tadde era un minatore, me la cantava sempre quando ero piccola.

— Be’, allora, chi è la donna della canzone?

— Non lo so: so solo che la canzone dice così. Ma non si tratta della cosa che facciamo qui, ora? Far nascere dalla pietra le foglie verdi!

— Sembra qualcosa di religioso.

— Tu e le tue parole da sapiente! Si tratta solo di una canzone. Oh, come vorrei essere all’altro campo per farmi una nuotata. Puzzo!

— Anch’io puzzo.

— Puzziamo tutti.

— Nella solidarietà…

Ma il campo distava quindici chilometri dalle rive del Temeniano, e c’era solo la polvere in cui nuotare.

Nel campo c’era un uomo il cui nome, pronunciato, assomigliava a quello di Shevek: Shevet. Quando veniva chiamato uno dei due, rispondeva l’altro. Shevek sentiva una sorta di affinità con lui: una relazione più stretta di quella della fratellanza comune, a causa di questa somiglianza accidentale. Un paio di volte si era accorto che Shevet lo adocchiava. Ma non si erano ancora mai parlati.

Le prime decadi di Shevek al progetto di imboschimento erano passate nella stanchezza e il risentimento muto. La gente che aveva eletto di lavorare in campi di centrale utilità come la fisica non avrebbe dovuto venire chiamata a far parte di questi progetti, con leve speciali! Non era immorale fare un lavoro che non dava gioia a chi lo faceva? Quel lavoro andava fatto, certo, ma c’era un mucchio di persone a cui non piacevano mai gli incarichi che ricevavano, e queste persone cambiavano continuamente occupazione; loro, avrebbero dovuto offrirsi come volontari. Qualsiasi stupido avrebbe potuto fare quel lavoro. Anzi, molti stupidi sarebbero stati capaci di farlo meglio di lui. Egli era orgoglioso della propria forza, e si era sempre offerto volontario per i «lavori pesanti» quando giungeva il decimo giorno, dei servizi a rotazione; ma qui si trattava di farli un giorno dopo l’altro, otto ore al giorno, in mezzo alla povere e al caldo. Per tutta la giornata non pensava che alla sera, al momento in cui avrebbe potuto starsene da solo a pensare, e nell’istante in cui metteva piede nella tenda dormitorio, dopo il pasto serale, la testa gli ciondolava ed egli dormiva come un sasso fino all’alba, e neppure un pensiero gli si formulava nella mente.

Trovò i propri compagni di lavoro stupidi e villani; perfino quelli più giovani di lui lo trattavano come un bambino. Indispettito e risentito, traeva piacere soltanto dallo scrivere agli amici Tirin e Rovab con un codice che avevano inventato all’Istituto: una serie di parole equivalenti ai simboli caratteristici della fisica temporale. Scritte per disteso, queste parole parevano avere senso come messaggio ma in verità non avevano alcun significato, salvo quello della equazione o della formula filosofica che dovevano mascherare. Le equazioni di Shevek e di Rovab erano genuine. Le lettere di Tirin erano molto divertenti e avrebbero convinto chiunque del fatto che si riferissero ad emozioni e ad eventi reali, ma la fisica in esse contenuta era perlomeno dubbia. Shevek continuò a inviare spesso questi rompicapi, dopo essersi accorto che poteva studiarseli mentalmente mentre scavava buchi nella roccia con una pala ammaccata in mezzo a una tempesta di sabbia. Tirin gli rispose varie volte, Rovab soltanto una. Rovab era una ragazza fredda, ed egli lo sapeva già. Ma nessuno degli altri, all’Istituto, sapeva quanto fosse disperato Shevek. Nessuno di loro era stato incaricato, proprio mentre incominciava a svolgere una ricerca indipendente, presso un maledetto progetto per piantare alberi. La loro funzione centrale non veniva sprecata. Essi lavoravano: facevano ciò che desideravano fare. Egli non agiva. Egli veniva agito.

E tuttavia era strano l’orgoglio che provavi verso ciò che avevi fatto in quel modo — tutti insieme — la soddisfazione che ti dava. E alcuni dei compagni di lavoro erano delle persone veramente straordinarie. Gimar, per sempio. Dapprima la bellezza muscolosa della ragazza l’aveva messo un po’ in soggezione, ma adesso egli era abbastanza forte da provare desiderio di lei.

— Vieni con me questa notte, Gimar.

— Oh, no — rispose lei, e lo guardò con tanta sorpresa che egli le disse, con la dignità del dolore: — Credevo che fossimo amici.

— E lo siamo.

— Allora…

— Ho un compagno. È rimasto a casa.

— Avresti potuto dirmelo — disse Shevek, arrossendo.

— Be’, non ho pensato che avrei dovuto farlo. Mi spiace, Shevek. — Lo fissò con aria così addolorata che egli fece, con qualche speranza: — E non credi che…

— Non. Non puoi mandare avanti un’unione in questo modo, un po’ per il tuo compagno e un po’ per gli altri.

— Il prendere un compagno per tutta la vita, secondo me, è fondamentalmente in contrasto con l’etica Odoniana — disse Shevek, secco e pedante.

— Sciocchezze — disse Gimar, con la sua voce pacata. — Possedere è sbagliato; dividere è giusto. E che cosa puoi meglio dividere che la tua intera personalità, la tua intera vita, ogni notte e ogni giorno?

Egli si sedette con le mani tra i ginocchi, la testa china: un bambino lungo, magro, sconsolato, non terminato. — Io non ce la farei — disse, dopo un poco.

— Tu?

— Io non ho mai conosciuto veramente nessuno. Hai visto come non ti ho capito. Sono tagliato fuori. Non posso entrare. Non lo potrò mai. Sarebbe sciocco per me pensare a un’unione. Questo genere di cose è per… per gli esseri umani…

Con timidezza che non era ritrosia sessuale, ma l’esitazione del rispetto, Gimar gli posò la mano sulla spalla. Non lo rassicurò. Non gli disse che era come tutti gli altri. Gli disse: — Non conoscerò mai più una persona come te, Shevek. Non ti dimenticherò mai.