— E cosa ti rimane, allora? Isolamento e disperazione. Tu neghi la fratellanza, Shevek! — gridò la ragazza alta.
— No… no, niente affatto. Io cerco di esprimere quella che, secondo me, è in realtà la fratellanza. Essa comincia… essa comincia nella condivisione del dolore.
— E dove finirebbe?
— Non lo so. Ancora non lo so.
CAPITOLO 3
Quando Shevek si destò, dopo avere dormito senza interruzioni per tutta la sua prima mattina su Urras, aveva il naso intasato, la gola irritata e una tosse insistente. Ritenne di essersi preso un raffreddore — neppure l’igiene Odoniana era riuscita a evitare il raffreddore comune — ma il dottore che attendeva di eseguire su di lui un controllo medico completo, un uomo anziano e dall’aria solenne, gli disse che si trattava, molto probabilmente, di un attacco di febbre da fieno: una reazione allergica al pulviscolo e al polline di Urras, che non erano familiari al suo organismo. Gli prescrisse delle compresse e un’iniezione, che Shevek accolse con filosofia, e il vassoio della colazione, che Shevek accolse con appetito. Il dottore gli chiese ancora di non uscire dall’appartamento, poi se ne andò. Non appena ebbe terminata la colazione, Shevek si dedicò all’esplorazione di Urras, una stanza alla volta.
Il letto, un letto massiccio, montato su quattro piedini, con un materasso assai più soffice di quello della cuccetta della nave, con coperte complicate, alcune lisce e sottili, altre calde e spesse, e con un mucchio di cuscini che parevano nubi e cumuli, disponeva di un’intera stanza. Il pavimento era ricoperto di un tappeto cedevole ed elastico; c’erano una cassettiera di legno mirabilmente scolpito e lucidato, un ripostiglio abbastanza grande da accogliere gli abiti di un dormitorio per dieci persone. Poi c’era la grande stanza comune con il focolare, da lui già osservata la sera prima, e una terza stanza, che conteneva una vasca da bagno, un lavandino e un cesso complicatissimo. Questa stanza era destinata evidentemente al suo uso esclusivo, dato che la sua porta d’accesso dava sulla stanza da letto, e dato che conteneva soltanto una serie di oggetti da bagno, sebbene ciascuno di tali oggetti fosse lussuoso in un modo talmente sensuale da spingersi assai al di là del semplice erotismo e da costituire, secondo Shevek, qualcosa come l’insuperabile apoteosi dell’escrementale. Egli passò circa un’ora in questa terza stanza, occupato a usare ciascuno degli oggetti, a turno, e così raggiungendo, incidentalmente, un alto grado di pulizia personale. Lo spiegamento delle acque era meraviglioso. I rubinetti continuavano a versare finché non li si chiudeva; la vasca da bagno teneva sessanta litri; il cesso usava non meno di cinque litri d’acqua ogni volta. Ma in realtà la cosa non costituiva una sorpresa. La superficie di Urras era per cinque sesti composta d’acqua. Perfino i suoi deserti erano di ghiaccio, ai poli. Non c’era bisogno di economizzare; non c’era siccità… Ma dove finivano gli escrementi? Se lo chiese a lungo, inginocchiato accanto alla tazza del cesso, dopo aver studiato il meccanismo dello sciacquone. Probabilmente li filtravano in qualche impianto per la produzione di concime. Anche su Anarres c’erano delle comunità marine che usavano un simile sistema per il loro recupero. Si ripromise di chiedere informazioni su questo particolare, ma in seguito non se ne presentò mai l’occasione. C’erano molte domande ch’egli non fece mai, su Urras.
Nonostante la testa pesante, si sentiva abbastanza bene, e desideroso di attività. Le stanze erano talmente calde ch’egli rinunciò a vestirsi, e continuò a girare nudo per l’appartamento. Si recò alle finestre della camera più grande e rimase lì fermo, a guardare fuori. La stanza era molto in alto. La sua prima reazione fu di sorpresa: si tirò indietro, poiché non era abituato a edifici di altezza superiore a un piano. Era come guardare giù da un dirigibile; ci si sentiva distaccato dalla terra, dominante, non coinvolto in quanto vi accadeva. Le finestre si affacciavano sulle cime di un boschetto e, al di là di questo, si scorgeva un edificio bianco con una aggraziata torre di forma quadrata. Dietro all’edificio, il terreno digradava a formare un’ampia vallata. Tutta la superficie era coltivata, poiché le innumerevoli macchie di verde che la coloravano erano rettangolari. E anche dove il verde svaniva nella distanza azzurrina, si potevano distinguere le righe nere delle strade, delle siepi divisorie e dei filari d’alberi: una rete altrettanto fine quanto il sistema nervoso di un organismo vivente. E infine si innalzavano delle montagne, che facevano da limite alla valle, una piega blu dopo l’altra, morbide e scure sotto il grigio pallido, ininterrotto, del cielo.
Era il più bel panorama che Shevek avesse visto. La delicatezza e la vitalità dei colori, la mescolanza del disegno rettilineo umano con i margini robusti, proliferanti, della natura, la varietà e l’armonia degli elementi, davano un’impressione di complessa integrità quale egli non aveva mai visto, ad eccezione, forse, di quella adombrata in piccola scala su taluni volti umani sereni e pensosi.
Paragonata a questa, qualsiasi scena che Anarres potesse offrire, perfino la Piana di Abbenay, e i massicci dei Ne Theras, era poca cosa: appariva spoglia, arida, approssimativa. I deserti del Sudovest possedevano la bellezza nella loro vastità, ma era una bellezza ostile, senza tempo. Anche là dove Anarres era coltivata in modo più estensivo, il paesaggio pareva un abbozzo senz’arte, in gesso giallo, a paragone con questa piena magnificenza di vita, ricca sia di storia sia di stagioni a venire, inesauribile.
Ecco come dovrebbe essere un mondo, pensò Shevek.
E in qualche punto, là fuori, in quello splendore verde e azzurro, qualcosa stava cantando: una piccola voce acuta, che iniziava e poi cessava, incredibilmente dolce. Di che cosa si trattava? Una piccola voce, chiara e imprevedibile, una musica sospesa nell’aria.
Egli ascoltò, e il respiro gli si fermò nella gola.
Ci fu un bussare alla porta. Voltandosi incuriosito, nudo così come si trovava, e volgendo le spalle alla finestra, Shevek disse: — Venga avanti!
Entrò un uomo, portando sulle braccia vari pacchetti. Si arrestò non appena varcata la soglia. Shevek attraversò la stanza in direzione del nuovo venuto, e pronunciò il proprio nome, secondo il costume anarresiano; insieme, secondo il costume urrasiano, tese la mano.
L’uomo, che pareva sulla cinquantina e che aveva il volto solcato da rughe, consumato, disse una frase di cui Shevek non afferrò neppure una parola, e non strinse la mano che gli veniva offerta. Forse erano i pacchetti a impedirglielo, ma egli non fece mossa di spostarli per liberarsi la mano. Il suo viso aveva un’espressione estremamente seria. Era possibile che fosse in imbarazzo.
Shevek, che era certo di avere imparato i modi di salutare degli urrasiani, era sconcertato. — Venga avanti — ripeté, e quindi aggiunse, dato che gli urrasiani erano avvezzi a usare titoli ad ogni piè sospinto: — Signore!
L’uomo se ne uscì con un’altra delle sue frasi incomprensibili, e intanto scivolò verso la camera da letto. Questa volta Shevek riconobbe alcune parole iotiche, ma non riuscì a capire le altre che le accompagnavano. Non cercò di fermare l’uomo, dato che pareva intenzionato a recarsi in camera da letto. Forse si trattava di un compagno di stanza? Ma c’era un letto solo. Shevek lasciò perdere la cosa e tornò alla finestra, e l’uomo si affrettò a entrare nella stanza; Shevek lo sentì muoversi lì dentro ancora per alcuni minuti. Proprio mentre Shevek era giunto alla conclusione che si trattava di qualche lavoratore che faceva il turno di notte e che usava quella stanza durante il giorno, come a volte si faceva in caso di temporanei sovraffollamenti dei domicili, l’uomo riapparve dalla stanza. Disse qualche parola («Ecco fatto, signore», forse?) e piegò la testa in un modo alquanto bizzarro, come se credesse che Shevek, che distava da lui almeno cinque metri, stesse per dargli un pugno in faccia. Poi se ne andò. Shevek rimase fermo accanto alla finestra, intento a comprendere lentamente come per la prima volta qualcuno gli avesse rivolto un inchino.