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Le torri della città s’innalzavano nella nebbia, simili a grandi e strette scale a pioli nella luce confusa. In alto passavano i treni, nastri luminosi e urlanti. Poderose muraglie di pietra e di vetro si affacciavano sulle strade, al di sopra della corsa di auto e di tram. Pietra, acciaio, vetro, luce elettrica. E nessun volto.

— Qui siamo a Nio Esseia, dottor Shevek. Ma è stato deciso che fosse meglio tenerla lontano dalla folla cittadina, per il momento. Ora ci rechiamo direttamente all’Università.

C’erano cinque uomini con lui nell’interno buio, morbidamente imbottito dell’auto. Gli indicarono dei punti importanti, ma nella nebbia non poté capire quale di quei grandi, vaghi, fuggevoli edifici fosse l’Alta Corte, quale il Museo Nazionale, il Direttorato e il Senato. Attraversarono un fiume, o un estuario; i milioni di luci di Nio Esseia, diffuse dalla nebbia, tremolarono sull’acqua scura, dietro di loro. La strada si fece più buia, la nebbia si fece più spessa, l’autista rallentò la velocità del veicolo. I fari illuminavano la nebbia come un muro che continuava a ritirarsi davanti a loro. Shevek si sporse leggermente in avanti, per osservare. I suoi occhi non erano a fuoco, e neppure la sua mente, ma il suo viso aveva un aspetto grave e distaccato, e gli altri parlavano piano, rispettosi del suo silenzio.

Che cos’era quell’oscurità più profonda che scorreva interminabilmente a fianco della strada? Alberi? Possibile che avessero viaggiato, fin da quando avevano lasciato la città, in mezzo ad alberi? Gli venne in mente la parola iotica: «foresta» Non si sarebbe aperto improvvisamente davanti a loro il deserto. Gli alberi continuavano senza fine, sul pendio davanti a loro e su quello che lo seguiva, e poi sul successivo, ritti nel dolce freddo della nebbia; senza fine, una foresta che copriva tutto il mondo, un rapporto reciproco di vite in lotta tra sé, un oscuro movimento di foglie nella notte. Poi, mentre Shevek ancora se ne meravigliava, mentre l’auto, uscendo dalla nebbiosa valle del fiume, entrava in un’atmosfera più chiara, apparve a fissarlo, dall’oscurità sotto le fronde affacciate sulla strada, per un solo istante, una faccia.

Non assomigliava ad alcuna faccia umana. Era lunga come il suo braccio, e bianca in modo spettrale. Il respiro usciva sotto forma di vapore da quelle che dovevano essere le nari, e terribile, inconfondibile, c’era un occhio. Un occhio grande, scuro, melanconico, forse cinico? che sparì nel lampo dei fari del veicolo.

— Che cos’era?

— Un asino, no?

— Un animale?

— Sì, un animale. Santo Dio, è vero! Non avete animali di grossa taglia su Anarres, no?

— Gli asini sono un po’ come i cavalli — spiegò un altro degli uomini, e un terzo, con voce ferma, da persona anziana: — Quello era davvero un cavallo. Non ci sono asini di quella taglia. — Avrebbero voluto parlare con lui, ma Shevek aveva nuovamente smesso di ascoltare. Pensava a Takver. Chiese ancora cosa avrebbe potuto dire a Takver quello sguardo profondo, asciutto, scuro, uscito dall’oscurità. Takver aveva sempre saputo che tutte le vite sono una comunità, gioito della propria consanguineità con i pesci delle vasche del suo laboratorio, cercato di conoscere, di sperimentare, le esistenze che giacciono al di là del confine umano. Takver avrebbe saputo come restituire lo sguardo a quell’occhio spuntato dall’oscurità sotto gli alberi.

— Ecco Ieu Eun, là davanti. C’è una vera folla in attesa di conoscerla, dottor Shevek; il Presidente, molti Direttori, e il Cancelliere, naturalmente, e ogni tipo di pezzi grossi. Ma se lei è stanco, cercheremo di ridurre i convenevoli al minimo possibile.

I convenevoli durarono parecchie ore. Egli, in seguito, non riuscì mai a ricordarli con chiarezza. Venne spinto fuori dalla piccola scatola nera della vettura, fino a una grossa scatola illuminata piena di gente: centinaia di persone, sotto un soffitto dorato da cui pendevano lampade di cristallo. Venne presentato a tutti. Ciascuno di loro era di statura inferiore alla sua, e calvo. Le poche donne presenti erano glabre perfino sulla testa; poi comprese che dovevano radersi tutto il corpo: radersi la peluria sottile, morbida, corta della sua razza, e anche i capelli. Ma li sostituivano con abiti meravigliosi, clamorosi nel taglio e nel colore: le donne in gonne lunghissime che spazzavano il suolo, il seno nudo, la vita il collo e il capo adorni di gioielli e pizzi e veli, gli uomini in calzoni e cappe o tuniche rosse, azzurre, viola, oro e verde, con maniche aperte e sbuffi di merletto, o lunghi gonnellini rossi, verde cupo o nero che si aprivano al ginocchio per mostrare calzini bianchi, dalle giarrettiere argentate. Un’altra parola iotica venne in mente a Shevek, una parola che non aveva mai saputo a cosa applicare, anche se il suono gli piaceva: «splendore». Ecco, questa gente aveva splendore. Vennero tenuti discorsi. Il Presidente del Senato della nazione di A-Io, un uomo dagli occhi strani, gelidi, propose un brindisi: «Alla nuova èra di fratellanza tra i Pianeti Gemelli, e al messaggero di questa nuova èra, il nostro eminente e graditissimo ospite, il dottor Shevek di Anarres!» Il Cancelliere dell’Università gli parlò in modo affascinante, il Primo Direttore della Nazione gli parlò in modo assai serio, venne presentato ad ambasciatori, astronauti, fisici, politici, decine di persone, ognuna delle quali aveva lunghe liste di titoli e onoreficenze sia prima che dopo il nome, ed esse gli parlarono, ed egli rispose loro, ma più tardi non ricordò nulla di quanto aveva detto ciascuno, e men che meno ciò che aveva detto lui. Molto tardi, quella notte, si trovò insieme con un piccolo gruppo di uomini che camminava sotto la pioggia tiepida in un grosso parco o in una piazza. Si sentiva sotto i piedi la cedevolezza elastica dell’erba verde; la riconobbe perché aveva camminato nel Parco Triangolare di Abbenay. Quel vivo ricordo e l’ampio, freddo tocco del vento notturno lo destarono. La sua anima uscì dal nascondiglio.

I suoi accompagnatori lo condussero a un edificio e una stanza che, come gli spiegarono, era «sua».

Era ampia, lunga circa dieci metri, ed evidentemente si trattava di una camerata comune, dato che non c’erano divisioni né predelle per dormire; evidentemente, i tre uomini rimasti con lui dovevano essere i suoi compagni di stanza. Era una bellissima camerata, con una parete composta interamente di una serie di finestre, divise tra loro mediante sottili colonne che si innalzavano, simili ad alberi, fino a formare un doppio arco, in cima. Il pavimento era ricoperto di un tappeto rosa, e all’altro estremo della stanza c’era un fuoco, in un focolare aperto. Shevek attraversò la stanza e si fermò davanti al fuoco. Non aveva mai visto bruciare del legno per riscaldarsi, ma ormai non si stupiva più di nulla. Tese le mani verso il piacevole tepore, e si sedette su una panca di marmo levigato, accanto al focolare.

Il più giovane dei suoi accompagnatori si sedette di fronte a lui. Gli altri due erano ancora intenti a parlare tra loro. Parlavano di fisica, ma Shevek non aveva tentato di ascoltare il loro discorso. Il giovane disse in tono tranquillo: — Mi chiedo come si possa sentire, dottor Shevek.

Shevek allungò le gambe e si piegò in avanti per sentire sul volto il tepore del fuoco. — Mi sento pesante.

— Pesante?

— Forse la gravità. O sono stanco.

Alzò lo sguardo sull’altro, ma tra loro c’era il bagliore del fuoco, e il volto del suo accompagnatore non si distingueva chiaramente: soltanto il luccichio di una catena d’oro e il rosso scuro e brillante della toga.

— Non conosco il suo nome.