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Sherut, Takver, N. 3.

Bussò, osservando i riflessi della lampada del corridoio sulla superficie scura della porta, che non era perfettamente in quadro negli stipiti. Una donna disse: — Entra! — Egli aprì la porta.

La lampada della stanza era dietro di lei. Non poté vedere abbastanza bene, per qualche istante, ed essere sicuro che fosse Takver. Ella gli stava di fronte. Alzò il braccio, come per allontanarlo o per afferrarlo: un gesto incerto, non terminato. Egli le prese la mano, e poi si abbracciarono, si unirono e rimasero fermi, stretti, sull’inattendibile terra.

— Entra — disse Takver, — oh, entra, entra.

Shevek aprì gli occhi. In mezzo alla stanza, che ancora gli appariva luminosissima, egli scorse il viso serio, attento di una bambina piccola.

— Sedik, questo è Shevek.

La bambina si avvicinò a Takver, si tenne alla sua gamba, e scoppiò in pianto.

— Ma non piangere, perché piangi, animuccia?

— E perché piangi tu? — bisbigliò la bambina.

— Perché sono felice! Solo perché sono felice. Siediti sulle mie ginocchia. Ma Shevek, Shevek! La tua lettera è arrivata soltanto ieri. Intendevo andare al telefono portando Sedik a dormire. Dicevi che avresti chiamato questa sera. Non che saresti venuto questa sera! Oh, non piangere, Sedik, guarda, io non piango più, no?

— Anche l’uomo piangeva.

— Certo che piangevo.

Sedik lo guardò con curiosità e diffidenza. Aveva quattro anni. Aveva la testa rotonda, la faccia tonda, era tonda, scura, ricciolina, morbida.

L’unico mobilio della stanza erano le due predelle dei letti. Takver si sedette su una con Sedik sulle ginocchia, Shevek si sedette sull’altra e allungò le gambe. Si asciugò gli occhi con il dorso della mano e mostrò le nocche a Sedik. — Vedi — le disse, — sono umide. E mi cola il naso. Hai un fazzoletto?

— Sì. Perché, tu no?

— Io lo avevo, ma si è perso in una lavanderia.

— Puoi dividere con me il fazzoletto che uso — disse Sedik, dopo una pausa.

— Non so dove sia — le disse Takver.

Sedik scese dalle ginocchia della madre e andò a prendere un fazzoletto nell’armadio a muro. Lo diede poi a Takver, che lo passò a Shevek. — È pulito — disse Takver, con il suo largo sorriso. Sedik osservò attentamente mentre Shevek si soffiava il naso.

— C’è stato un terremoto, poco tempo fa? — chiese.

— Trema sempre, alla fine non te ne accorgi più — disse Takver, ma Sedik, felice di dispensare informazioni, disse con la sua voce, acuta ma un po’ rauca: — Sì, ce n’è stato uno grosso, prima di pranzo. Quando c’è un terremoto le finestre grattano e il pavimento dondola, e devi andare alla porta o fuori di casa.

Shevek guardò Takver; lei gli restituì lo sguardo. Pareva invecchiata più di quattro anni. Non aveva mai avuto i denti molto a posto, ed ora gliene mancavano due, quelli dietro i canini superiori, e si vedevano i buchi quando sorrideva. La sua pelle non aveva più la levigatezza tesa della gioventù, e i capelli, ben pettinati all’indietro, erano opachi.

Shevek vide chiaramente che Takver aveva perso la propria grazia giovanile, e aveva l’aspetto di una donna ordinaria, stanca, vicina alla metà della vita. Lo vide più chiaramente di quanto lo avrebbe potuto vedere chiunque altro. Vide ogni cosa di Takver in un modo in cui nessun altro la avrebbe potuto vedere, la vide dalla posizione in cui lo mettevano gli anni di intimità e gli anni d’attesa. La vide come era.

I loro occhi si incontrarono.

— Come… come è andata qui? — egli chiese, arrossendo tutto d’un tratto e ovviamente dicendo la frase a caso. Ella sentì l’onda tangibile, l’impeto del suo desiderio. Anch’ella arrossì leggermente, e sorrise. Disse con la sua voce roca: — Oh, come quando ci siamo parlati al telefono.

— Ma è stato sei decadi fa!

— Le cose non cambiano molto, quaggiù.

— È molto bello, qui… le montagne. — Vide negli occhi di Takver l’oscurità delle valli montane. L’acutezza del suo desiderio sessuale aumentò bruscamente, ed egli per un istante ne fu stordito, poi riuscì momentaneamente a superare la crisi e cercò di comandare alla propria erezione di placarsi. — Pensi di voler rimanere qui? — disse.

— Non ne ho voglia — disse lei, con la sua voce strana, scura, roca.

— Il naso ti gocciola ancora — osservò Sedik, con precisione, ma senza particolari connotati emotivi.

— Ringrazia che non c’è altro — disse Shevek. Takver disse: — Sta’ zitta, Sedik, non egoizzare! — Entrambi gli adulti scoppiarono a ridere. Sedik continuò a studiare Shevek.

— La cittadina mi piace, Shevek. La gente è simpatica… sono delle sagome. Ma il lavoro non è gran cosa. È soltanto lavoro di laboratorio all’ospedale. La mancanza di tecnici è quasi superata, e io, presto, potrò andarmene via senza lasciarli nei pasticci. Mi piacerebbe ritornare ad Abbenay, se questa è la cosa a cui pensi. Ti sei fatto dare un nuovo assegnamento?

— Non l’ho chiesto e non ho controllato. Sono stato per la strada per una decade.

— E cosa facevi per la strada?

— Ci viaggiavo sopra, Sedik.

— Ha fatto il giro di mezzo mondo, dal sud, dal deserto, per venire da noi — disse Takver. La bambina sorrise, si sedette più comodamente sulle sue ginocchia, e sbadigliò.

— Hai mangiato, Shevek? Sei stanco? Devo accompagnare a dormire la bambina, stavamo giusto per partire quando hai bussato.

— Dorme già nel dormitorio?

— Fin dall’inizio di questa stagione.

— Avevo già quattro anni — affermò Sedik.

— Devi dire: ho già quattro anni — disse Takver, posandola gentilmente a terra per prendere il cappotto dall’armadio. Sedik rimase ferma, di profilo rispetto a Shevek; era estremamente attenta a lui, e dirigeva a lui le sue osservazioni. — Ma io avevo quattro anni; adesso ne ho più di quattro.

— Una temporalista, come il padre!

— Non puoi avere quattro anni e più di quattro anni nello stesso tempo, vero? — chiese la bambina, avvertendo l’approvazione, e parlando, ora, direttamente a Shevek.

— Oh, sì, certo. E puoi avere quattro anni e quasi cinque nello stesso tempo, anche. — Seduto sulla bassa predella, Shevek poteva tenere la testa allo stesso livello di quella della bambina, in modo ch’ella non dovesse alzare lo sguardo. — Ma dimenticavo che hai quasi cinque anni, vedi. L’ultima volta che ti ho vista, eri poco più di niente.

— Davvero? — Il tono della bambina era civettuolo, Shevek ne era certo.

— Sì. Eri lunga più o meno così. — Allargò le mani, non molto.

— E sapevo già parlare?

— Dicevi wee, e qualche altra cosa.

— Svegliavo tutti nel domicilio, come il bambino di Cheben? — domandò lei, con un sorriso largo, allegro.

— Certamente.

— E quando ho imparato davvero a parlare?

— A circa mezzo anno — disse Takver, — e da allora non hai più chiuso la bocca. Dov’è il cappello, Sedik?

— A scuola. Non mi piace il cappello che porto — informò Shevek.

Accompagnarono la bambina lungo le strade battute dal vento, fino al dormitorio del centro d’apprendimento, e la condussero nella sala comune. Anche questa era un luogo piccolo, sciupato, ma rallegrato da disegni dei bambini, vari bei modellini di bronzo di motori, una scatola di casette giocattolo e di figure di legno dipinte. Sedik diede alla madre il bacio della buona notte, poi si voltò verso Shevek e alzò le braccia; egli si chinò verso di lei; lei lo baciò in modo prosaico ma fermo, e disse: — Buona notte! — Poi si allontanò con la custode notturna, sbadigliando. Udirono ancora la sua voce, e la voce pacata della custode che le diceva di tacere.

— È bellissima, Takver. Bellissima, intelligente, robusta.

— È rovinata, temo.

— No, no. Hai fatto bene, fantasticamente bene… in tempi come questi…

— Non è stata tanto dura, qui, non come nel sud — disse, guardandolo in viso mentre lasciavano il dormitorio. — I bambini avevano da mangiare, qui. Non molto bene, ma abbastanza. Questa comunità può coltivarsi il cibo. E se non c’è niente, ci sono sempre gli arbusti di holum. Puoi raccogliere semi di holum selvatico e pestarli. Nessuno è morto di fame, qui. Ma io ho davvero rovinato Sedik. L’ho allattata fino a tre anni, naturalmente: perché no, visto che non c’era niente di buono con cui svezzarla! Ma lo disapprovavano, alla stazione di ricerca di Rolny. Volevano che la mettessi nel nido a giornata piena. Dicevano che mi comportavo da proprietarista nei riguardi della bambina e non contribuivo con tutte le mie forze allo sforzo sociale in un momento di crisi. E avevano ragione, in realtà. Ma erano così moralisti! Nessuno di loro capiva cosa vuol dire essere soli. Facevano tutti un gruppo, nessuno di loro faceva a sé. Erano le donne a punzecchiarmi perché allattavo ancora. Vere speculatrici del corpo. Rimanevo là perché il cibo era buono… ad assaggiare le alghe per vedere se hanno gusto gradevole, a volte arrivavi a superare una razione normale, anche se avevano gusto di colla… finché non trovarono da sostituirmi con qualcuno più adatto al posto. Allora passai a Nuova Partenza per circa dieci decadi. Era in inverno, due anni fa, quel lungo periodo in cui la posta non arrivò, quando le cose erano così gravi laggiù dove eri tu. A Nuova Partenza ho visto che cercavano qualcuno per una assegnazione qui, e sono venuta. Sedik è rimasta con me nel domicilio fino a questo autunno. Continuo a sentire la sua mancanza. La stanza è così silenziosa.