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— Non hai una compagna di stanza?

— Sherut; è molto gentile, ma lavora al turno di notte all’ospedale. Era ora che Sedik se ne andasse, le fa bene abitare con gli altri bambini. Cominciava a diventare timida. È stata molto brava, quando si è trattato di andare laggiù, molto stoica. I bambini sono stoici Piangono se cascano in terra, ma prendono le grandi cose così come vengono, non piagnucolano come tanti adulti.

Si avviarono per la strada a fianco a fianco. Le stelle del cielo autunnale erano comparse: incredibili come numero e come fulgore, tremolanti e quasi ammiccanti a causa della polvere sollevata dal terremoto e dal vento, cosicché l’intero cielo pareva tremare: uno scotimento di schegge di diamante, una scintillazione di luce solare su un mare nero. Sotto quell’inquieto splendore, le montagne erano scure e solide, i tetti spigolosi, la luce delle lampade stradali lieve.

— Quattro anni fa — disse Shevek. — Quattro anni fa, giunsi ad Abbenay, da quel posto degli Altipiani del Sud, come si chiamava? Fonti Rosse. Era una notte come questa, ventosa, con le stelle. L’ho fatta di corsa: ho fatto di corsa tutta la strada da Via dei Piani al domicilio. E tu non c’eri, te n’eri andata. Quattro anni!

— Nel momento stesso in cui ho lasciato Abbenay ho capito di essere stupida ad andare. Carestia o non carestia. Avrei dovuto rifiutare l’assegnazione.

— Non avrebbe fatto molta differenza. Sabul mi aspettava Per dirmi che avevo finito all’Istituto.

— Se ci fossi stata io, non saresti andato a finire nella Polvere.

— Forse no, ma non saremmo riusciti ad avere gli assegnamenti insieme. Per qualche tempo è parso che nulla stesse insieme, vero? Le città del Sudovest… non c’era nessun bambino. E ancora non ce ne sono. Li mandarono al nord, in regioni dove c’era cibo locale, o qualche possibilità di averlo. E gli adulti rimasero per mandare avanti le cave e le fabbriche. È una meraviglia essere riusciti a farcela, tutti noi, no?… Ma, dannazione, adesso voglio fare il mio lavoro per un po’ di tempo!

Lei gli strinse il braccio. Egli si arrestò bruscamente, come se il suo tocco l’avesse fulminato con una scossa elettrica, lì sul posto. Lei lo spinse, sorridendo. — Non hai mangiato, vero?

— No. Oh Takver, sono stato male dal desiderio di te, sono stato male!

Giunsero insieme, stringendosi fieramente, al tratto di strada buio e privo di lampade, sotto le stelle. Si staccarono bruscamente, e Shevek indietreggiò fino alla parete più vicina. — Farei meglio a mangiare qualcosa — disse, e Takver rispose: — Sì, altrimenti cascherai in terra! Andiamo. — Percorsero un isolato fino alla mensa, l’edificio più grande di Chakar. Il pranzo regolare era terminato, ma i cuochi stavano mangiando, e diedero al viaggiatore un piatto di minestra e tutto il pane che voleva. Sedettero tutti alla tavola più vicina alla cucina. Le altre tavole erano già state ripulite e apparecchiate per l’indomani mattina. La grande sala era cavernosa, il soffitto s’innalzava nelle ombre, e l’altra estremità, di fronte a loro, era oscura, ad eccezione dei punti dove un piatto o una tazza luccicava su una tavola scura, riflettendo la luce. I cuochi e i servitori erano una squadra tranquilla, stanca dopo la giornata di lavoro; mangiavano in fretta, senza molto parlare, senza prestare molta attenzione a Takver e allo straniero. A uno a uno, essi terminarono e si alzarono per portare i piatti a coloro che li lavavano in cucina. Una vecchia donna disse, alzandosi: — Non abbiate fretta, ammari, hanno ancora un’ora di roba da lavare. — Aveva il volto severo e pareva dura, non materna, non benevola; ma parlava con compassione, con la carità degli uguali. Per loro non poteva fare di più che dire: «Non abbiate fretta», e guardarli per un istante con lo sguardo dell’amore fraterno.

Ed essi non potevano fare di più per lei, e poco di più l’uno per l’altro.

Ritornarono al Domicilio Otto, Stanza 3, e laggiù il loro lungo desiderio venne esaudito. Non accesero neppure la lampada; ad entrambi piaceva fare l’amore al buio. La prima volta entrambi vennero quando Shevek entrò in lei, la seconda volta lottarono e piansero in una rabbia di gioia, prolungando il loro culmine come procrastinare il momento della morte, la terza volta erano entrambi semiaddormentati, e girarono attorno al centro d’infinito piacere, attorno al reciproco essere, come pianeti che girassero ciecamente, tranquillamente, nella marea della luce solare, intorno al centro comune di gravità, oscillando, circolando interminabilmente.

Takver si destò all’alba. Si appoggiò sul gomito e guardò al di là di Shevek al rettangolo grigio della finestra, e poi a lui. Egli era sdraiato sulla schiena, e respirava così tranquillamente che il suo petto non pareva neppure muoversi; il suo volto era un po’ tirato all’indietro, e appariva remoto e austero nella luce sottile. Siamo venuti, pensò Takver, da una grande distanza, l’uno incontro all’altro. Abbiamo sempre fatto così. Superando grandi distanze, superando gli anni, superando abissi di fortuna. Ed è perché egli viene da tanto lontano, è per questo che niente ci può separare. Niente, nessuna distanza, nessun intervallo di tempo può essere più grande della distanza che c’è già tra noi, la distanza del nostro sesso, la differenza del nostro essere, della nostra mente; lo iato, l’abisso che scavalchiamo con un’occhiata, con un tocco, con una parola, la cosa più facile al mondo. Guarda quanto è lontano, quando è addormentato. Ma ritorna, ritorna, ritorna…

Takver diede notizia della partenza all’ospedale di Chakar, ma rimase finché non poterono sostituirla in laboratorio. Lavorava otto ore al suo turno: nel terzo trimestre dell’anno 168 molte persone continuavano con i lunghi turni lavorativi delle assegnazioni di emergenza, poiché, sebbene la siccità fosse terminata nell’inverno del 167, l’economia non era affatto ritornata alla normalità. «Turno lungo e mensa corta» era ancora la regola per le persone che svolgevano lavori specializzati, ma ora il cibo era adeguato al lavoro della giornata, cosa che non era stata vera un anno e due anni prima.

Shevek non fece quasi nulla per un certo periodo. Non si considerava malato; dopo i quattro anni di carestia, ciascuno era così abituato agli effetti della fatica e della denutrizione che li prendeva come la norma. Aveva quella tosse da polvere che era endemica nelle comunità meridionali del deserto, un’irritazione cronica dei bronchi simile alla silicosi e alle altre malattie dei minatori, ma anche questa era una cosa che si dava per scontata nei posti dove era stato. Egli si limitava a gioire del fatto che, anche se si fosse sentito di fare qualcosa, non ci sarebbe stato nulla ch’egli avrebbe potuto fare.