Per alcuni giorni egli e Sherut condivisero la stanza durante la giornata, entrambi dormendo fino al tardo pomeriggio, poi Sherut, una placida donna sulla quarantina, si trasferì con un’altra donna che faceva il turno di notte, e Shevek e Takver ebbero tutta la stanza a disposizione per le quattro decadi che passarono ancora a Chakar. Quando Takver era al lavoro, egli dormiva, o usciva a camminare nei campi o sulle montagne asciutte e nude che dominavano sulla città. Si recava al centro d’apprendimento nel tardo pomeriggio, e osservava Sedik e gli altri bambini sul campo dei giochi, si lasciava attirare, come spesso capitava agli adulti, in uno dei progetti dei bambini: un gruppo di falegnamini pazzi di sette anni, o un paio di serissimi geometri dodicenni che avevano dei guai con la triangolazione. Poi tornava con Sedik alla camera; andavano a prendere Takver quando usciva dal lavoro e andavano tutti insieme ai bagni e alla mensa. Un’ora o due dopo il pranzo, egli e Takver riportavano la bambina al dormitorio e ritornavano alla stanza. I giorni erano pieni di pace, nella luce autunnale, nel silenzio delle montagne. Era per Shevek un tempo fuori del tempo, a lato del suo flusso, irreale, durevole, incantato. A volte egli e Takver parlavano fino a tardi; altre volte andavano a letto non più tardi del buio e dormivano nove ore, dieci, nel profondo, cristallino silenzio della notte montana.
Egli era giunto con del bagaglio: una logora valigetta di cartone, con il suo nome scritto a grandi lettere in inchiostro nero; ogni anarresiano portava con sé delle carte, dei ricordi, un paio di stivali di ricambio, nello stesso tipo di valigia da viaggio, di cartone color arancio, pieno di graffi e ammaccata. La sua conteneva una camicia nuova ch’egli aveva preso mentre passava da Abbenay, un paio di libri e alcuni appunti, e un curioso oggetto, che, dentro la valigia, sembrava fatto di una serie di anelli piatti di fil di ferro e di alcune perline di vetro. Egli lo rivelò, con molto mistero, a Sedik, la seconda sera dopo il suo arrivo.
— È una collana — disse la bambina, con soggezione. La gente, nelle piccole città, portava un mucchio di gioielli. Nella sofisticata Abbenay il senso del contrasto tra il principio di non proprietà e l’impulso ad ornarsi era più forte, e un anello o una spilla erano il limite del buon gusto. Ma negli altri luoghi il profondo legame tra l’estetico e l’acquisitivo veniva semplicemente lasciato perdere; la gente si riempiva di gioielli senza vergogna. Molti distretti avevano un gioielliere di professione che svolgeva il suo lavoro per amore e per fama, oltre che le botteghe d’arte, dove potevate assecondare il vostro gusto con i modesti materiali disponibili: rame, argento, perline, spinello, e i granati e i diamanti paglierini degli Altipiani del Sud. Sedik non aveva visto molte cose lucenti e delicate, ma sapeva cos’erano le collane, e l’aveva riconosciuta.
— No; guarda — disse il padre, e con solennità e abilità alzò l’oggetto per mezzo del filo che univa i numerosi anelli. Sospeso alla sua mano, esso si animò, gli anelli ruotarono liberamente, descrivendo aeree sfere l’uno entro l’altro, le perline rifletterono la luce della lampada.
— Oh, che bello! — disse la bambina. — Che cos’è?
— Bisogna appenderlo al soffitto; c’è un chiodo? Il portamantello potrà andare bene, finché non avrò preso un chiodo ai Rifornimenti. Sai chi l’ha fatto, Sedik?
— No… L’hai fatto tu.
— L’ha fatto lei. La madre. Lei. — Si voltò verso Takver. — È il mio favorito, quello che stava sopra la scrivania. Ho dato gli altri a Bedap. Non li avrei certamente lasciati lì per la vecchia, come si chiama, Mamma Invidia, la nostra vicina di corridoio.
— Oh… Bunub! Da anni non pensavo più a lei! — Takver rise, con un fremito. Guardò la scultura mobile come se ne avesse paura.
Sedik fissava attentamente la scultura che ruotava senza far rumore alla ricerca del proprio equilibrio. — Mi piacerebbe — disse infine, facendo attenzione alle parole, — poterla condividere per una notte, sopra il letto dove dormo in dormitorio.
— Te ne farò una, cara. Per tutte le notti.
— Sei davvero capace di farle, Takver?
— Be’, una volta ero capace. Penso di essere ancora capace di farne una per te. — Le lacrime erano ora pienamente visibili negli occhi di Takver. Shevek l’abbracciò. Entrambi erano ancora nervosi, tesi. Sedik li osservò per un istante mentre erano abbracciati, con uno sguardo calmo, curioso, poi ritornò a guardare la Occupazione di uno Spazio Disabitato.
Quando erano soli, la sera, Sedik era spesso l’oggetto dei loro discorsi. Takver era per alcuni aspetti eccessivamente attenta alla bambina, per mancanza di altri rapporti, e il suo forte buon senso era oscurato da ambizioni e ansie materne. Questo non era naturale per lei; né la competitività né la protettività erano forti motivazioni nella vita degli anarresiani. Ella era lieta di dar voce alle proprie preoccupazioni e di sbarazzarsi di esse, cosa che le era finalmente permessa dalla presenza di Shevek. Le prime sere fu quasi sempre lei a parlare, ed egli la ascoltò come avrebbe potuto ascoltare della musica o il suono dell’acqua corrente, senza cercare di rispondere. Negli ultimi quattro anni, Shevek non aveva parlato molto; aveva perso l’abitudine della conversazione. Lei lo liberò da quel silenzio, come aveva sempre fatto. Più tardi fu quasi sempre lui a parlare, anche se continuò a dipendere da lei per le risposte.
— Ricordi Tirin? — le chiese una notte. Faceva freddo, era arrivato l’inverno, e la stanza, la più lontana dal bruciatore del domicilio, non si riscaldava mai bene, neppure con tutta la grata aperta. Avevano preso i materassi delle due predelle e stavano entrambi, ben infagottati, sulla predella più vicina alla grata. Shevek indossava una camicia molto vecchia, stinta, per riscaldarsi il petto, poiché amava rimanere seduto sul letto. Takver, che non aveva niente addosso, era infilata sotto le coperte fino alle orecchie. — Che ne è della coperta arancione? — lei chiese.
— Che proprietarista! L’ho lasciata.
— A Mamma Invidia? Peccato. Non sono una proprietarista. Sono soltanto sentimentale. È stata la prima coperta sotto la quale abbiamo dormito insieme.
— No, non è stata quella. Mi pare che abbiamo usato una coperta anche sui Ne Theras.
— Se l’abbiamo usata, non la ricordo — disse Takver, ridendo. — Di chi mi chiedevi?
— Tirin.
— Non ricordo.
— All’Istituto Regionale. Un ragazzo bruno, dal naso camuso…
— Oh, Tirin! Certamente. Pensavo ad Abbenay.
— L’ho visto, nel Sudovest.
— Hai visto Tirin? Come stava?
Per un certo tempo, Shevek non disse nulla, limitandosi a passare il dito sulle cuciture della coperta. — Ricordi cosa Bedap ci disse di lui?
— Che continuava a ricevere assegnazioni kleggich, e ad essere trasferito, e che alla fine è andato all’Isola Segvina, no? E lì Bedap perse traccia di lui.
— Hai visto il dramma che ha messo in scena, quello che l’ha messo nei guai?
— Alla Festa dell’Estate, dopo che tu partisti? Oh, sì. Non ricordo bene, è passato tanto tempo. Era una sciocchezza. Spiritosa, però… Tirin era spiritoso. Ma era una sciocchezza. Parlava di un urrasiano, già. Questo urrasiano si nasconde in una vasca idroponica sul mercantile della Luna, e respira con una cannuccia e mangia le radici delle piante. Te l’ho detto, era una stupidaggine! E così, riesce ad arrivare clandestinamente su Anarres. E allora gira da tutte le parti, cercando di comprare cose ai depositi e di venderle alla gente, e mettendo da parte pepite d’oro finché ne ha così tante che non riesce neppure a muoversi. Così deve rimanere seduto dove si trova, e costruisce un palazzo e si fa chiamare il Padrone di Anarres. E c’era una scena divertentissima dove lui e una donna vogliono copulare, e lei è aperta e pronta, ma lui non riesce a fare niente se prima non le dà le pepite d’oro, per pagarla. E lei non le vuole accettare. Faceva proprio ridere, con lei per terra che agita le gambe e lui che si lancia su di lei, e poi salta indietro come se l’avesse morsicato, dicendo: «Non devo! Non è morale! Non è un buon commercio!». Povero Tirin, era così simpatico, così pieno di vita.