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— Ha fatto lui la parte dell’urrasiano?

— Sì. Ed era meraviglioso.

— Mi ha fatto vedere il dramma, varie volte.

— Dove l’hai incontrato, a Valle Grande?

— No, prima, a Gomito. Era lo spazzino della fabbrica.

— E aveva scelto lui quell’incarico?

— Non credo che Tirin avesse ancora la facoltà di scegliere, ormai… Bedap ha sempre pensato che sia stato forzato ad andare a Segvina, che gli abbiano fatto richiedere le cure psicologiche mediante pressioni e minacce. Io non lo so. Quando l’ho visto, vari anni dopo le cure, era un uomo distrutto.

— Pensi che a Segvina gli abbiano fatto qualcosa che…

— Non lo so. Penso che il Manicomio cerchi davvero di offrire un riparo, un rifugio. A giudicare dalle loro pubblicazioni, devono essere degli altruisti, come minimo. Non credo che abbiano spinto Tirin nel baratro.

— Ma che cos’è stato, allora, a spezzarlo? Semplicemente il fatto di non trovare un’assegnazione che gli piacesse?

— È stata la sua commedia a spezzarlo.

— La commedia? Il chiasso che quei vecchi stronzi hanno fatto per colpa sua? Oh, ma senti, per diventare pazzo a causa di quelle prediche moralistiche, devi già essere pazzo in partenza. Bastava che le ignorasse.

— Tirin era già pazzo in partenza. Per il metro della nostra società.

— Cosa vuoi dire?

— Be’, penso che Tirin sia un artista nato. Non un artigiano: un creatore. Un inventore-distruttore, il tipo che deve prendere ogni cosa e girarla al contrario, rovesciarla. Un autore di satire, un uomo che giudica con la rabbia.

— Era davvero così buono, il suo dramma? — chiese Takver, ingenuamente, tirando fuori di un paio di centimetri la testa dalle coperte e studiando il profilo di Shevek.

— No, non credo. Dev’essere stato divertente, sulla scena. E aveva soltanto vent’anni, in fin dei conti, quando l’ha scritto. Continua sempre a riscriverlo. Non ha mai scritto altro.

— Continua a scrivere la stessa commedia?

— Continua a scrivere la stessa commedia.

— Uhg — disse Takver, con pietà e disgusto.

— Ogni due decadi veniva da me e me la faceva leggere. E io la leggevo o facevo finta di leggerla e cercavo di parlarne con lui. Egli desiderava disperatamente parlarne, ma non riusciva a farlo. Aveva troppa paura.

— Paura di che? Non capisco.

— Di me. Di tutti. Dell’organismo sociale, della razza umana, della fratellanza che lo aveva rifiutato. Quando un uomo si sente solo contro tutto il resto, ha ben ragione di essere spaventato.

— Vuol dire che soltanto perché alcune persone hanno definito immorale la sua commedia e hanno detto che non bisognava dargli un incarico di insegnamento, egli ha ritenuto che tutti fossero contro di lui? Mi pare un po’ una sciocchezza!

— Ma chi c’era a tenere le sue parti?

— C’erano Bedap… tutti i suoi amici.

— Ma egli li perse. Venne assegnato in un’altra zona.

— E perché non rifiutò l’assegnazione, allora?

— Ascolta, Takver. Anch’io mi sono detto la stessa cosa, esattamente. È la cosa che diciamo tutti. Tu che l’hai detta ora, avresti dovuto rifiutare l’assegnazione a Rolny. E io stesso, non appena giunto a Gomito, mi dissi: Sono un uomo libero, non avrei dovuto venire qui! … Noi lo pensiamo sempre, e lo diciamo sempre, ma non lo facciamo mai. Teniamo la nostra iniziativa ben nascosta all’interno della nostra mente, la teniamo di riserva, come una stanza dove possiamo recarci per dire: «Io non devo fare nulla, io faccio da solo le mie scelte, io sono libero.» E poi usciamo dalla piccola stanza della nostra mente, e andiamo dove il CDP ci assegna, e ci rimaniamo finché non ci dà un assegnamento nuovo.

— Oh, Shevek, non è vero. Questo succede soltanto dalla siccità in poi. Prima di quella, non c’era neppure la metà di tutte queste assegnazioni. La gente lavorava dove voleva lavorare, e si univa a una federativa o ne fondava una nuova, e poi si registrava presso DivLab. DivLab si occupava soprattutto di dare assegnazioni a coloro che preferivano rimanere nella Manodopera Generale non Qualificata. E adesso ritornerà a essere così.

— Non so. Dovrebbe ritornare così, naturalmente. Ma già prima della carestia, le cose non stavano andando in quella direzione, bensì nella direzione opposta. Bedap aveva ragione: ogni emergenza, perfino ogni leva di lavoro, tende a lasciare dietro di sé un aumento dei meccanismi burocratici all’interno del CDP, e una sorta di rigidità: questo è il modo in cui si faceva una cosa, questo è il modo in cui la si fa, questo è il modo in cui la si deve fare… C’era già una forte dose di questi ragionamenti, prima della siccità. Cinque anni di stretto controllo possono avere fissato permanentemente la tendenza. Non fare una faccia così scettica! Ascolta, dimmi quanta gente conosci che si è rifiutata di accettare un’assegnazione… anche prima della carestia?

Takver considerò la domanda. — Lasciando fuori i nuchnibi?

— No, no. I nuchnibi sono importanti.

— Be’, diversi amici di Bedap… quel simpatico compositore, Salas, e anche alcuni dei suoi amici disordinati. E i veri nuchnibi: passavano spesso da Valle Rotonda quando ero bambina. Ma ho sempre pensato che fossero degli imbroglioni. Raccontavano delle storie e delle bugie così belle, e leggevano la fortuna; tutti erano lieti di vederli e di tenerli con noi e di dar loro da mangiare per tutto il tempo che si fermavano. Non si fermavano mai per molto tempo. Ma c’era anche gente che si limitava a far fagotto e ad andarsene dalla città; di solito si trattava di ragazzi, alcuni di essi odiavano il lavoro dei campi, lasciavano il loro posto e se ne andavano. La gente lo fa dappertutto, ha sempre fatto così. Si trasferiscono, cercano qualcosa di meglio. Non puoi dire che questo sia rifiutare un’assegnazione!

— E perché non potrei?

— Dove vuoi arrivare? — brontolò Takver, ritirandosi sotto le coperte.

— A questo. Al fatto che ci vergogniamo di dire di avere rifiutato un’assegnazione. Al fatto che la coscienza sociale domina completamente sulla coscienza individuale, invece di raggiungere l’equilibrio con essa. Noi non cooperiamo: noi obbediamo. Abbiamo paura di venire messi fuori dal gruppo, di sentirci dire che siamo pigri, che siamo disfunzionali, che egoizziamo. Abbiamo timore dell’opinione dei nostri vicini più di quanto non rispettiamo la nostra libertà di scelta. Tu non mi credi, Takver, ma prova, prova soltanto a scavalcare la linea, soltanto nell’immaginazione, e guarda cosa provi. Comprenderai allora che cosa è Tirin, e perché è un rottame, un’anima perduta. È un criminale! Abbiamo creato il crimine, esattamente come lo crearono i proprietaristi. Noi costringiamo un uomo a uscire dalla sfera della nostra approvazione, e poi lo condanniamo per il fatto di essere uscito. Abbiamo fatto delle leggi, leggi di comportamento convenzionale, innalzato muri tutt’intorno a noi stessi, e non li possiamo vedere, poiché sono parte del nostro modo di pensare. Tirin non ha mai fatto questo. Lo conosco da quando avevamo dieci anni. Egli non l’ha mai fatto, non è mai stato capace di innalzare muri. Egli era un ribelle naturale. Era un Odoniano naturale… uno vero! Era un uomo libero, e il resto di noi, suoi fratelli, l’ha fatto impazzire come punizione per il suo primo atto di libertà!

— Non credo — disse Takver, con la voce attutita dalle coperte, in tono difensivo, — che Tirin fosse una personalità molto forte.

— No, era estremamente vulnerabile.

Cadde un lungo silenzio.

— Non mi stupisco che ti atterrisca — disse lei. — La sua commedia. Il tuo libro.

— Ma io sono più fortunato. Uno scienziato può fingere che il suo lavoro non sia lui stesso, sia soltanto la verità impersonale. Un artista non può nascondersi dietro la verità. Non può nascondersi da nessuna parte.

Takver lo studiò dall’angolo dell’occhio per qualche tempo, poi si rigirò e si mise a sedere, tirandosi la coperta fin sulle spalle. — Brr! Che freddo… Ho sbagliato, vero, riguardo al libro. A lasciare che Sabul lo facesse a pezzi e ci mettesse il proprio nome. Mi sembrava giusto. Mi sembrava di mettere il lavoro davanti all’autore, l’orgoglio davanti alla vanità, la comunità davanti all’Io individuale, e così via. Ma non si trattava di niente di simile, vero? Si trattava di una capitolazione. Una resa all’autoritarismo di Sabul.