Nessuno altro parlò. Il silenzio e la musica forte e sottile continuarono mentre il ragazzo consegnava la lavagna e usciva dal circolo. Uscì in corridoio e vi restò. Il gruppo da lui lasciato cominciò, sotto la guida del direttore, una storia di gruppo, raccontata a turno. Shevek ascoltò le loro voci sommesse e il proprio cuore che ancora batteva a precipizio. Aveva nelle orecchie una nota ronzante, che non veniva dall’orchestra, ma che era il suono che sorge quando ci si trattiene dal piangere; aveva già notato varie volte, in passato, lo stesso suono ronzante. Non gli piaceva ascoltarlo, e non voleva pensare alla pietra e all’albero, cosicché volse la propria mente al Quadrato. Era composto di numeri, e i numeri erano sempre spassionati e solidi; quando si sentiva in difetto, egli poteva volgersi a quelli, poiché essi non avevano difetti. Aveva visto il Quadrato nella propria mente qualche tempo prima: un disegno nello spazio, simile ai disegni che la musica faceva nel tempo: un quadrato dei primi nove numeri interi, con 5 nel centro. In qualunque modo sommavi le righe, il risultato era sempre uno, tutte le diseguaglianze si pareggiavano; era piacevole da osservare. Se soltanto avesse potuto organizzare un gruppo che amasse parlare di cose come quella; ma soltanto un paio di ragazzi e ragazze più adulti amavano farlo, ed erano occupati. E che dire del libro di cui il direttore aveva parlato? Era un libro di numeri? Avrebbe mostrato come fa la pietra a raggiungere l’albero? Egli era stato uno sciocco a raccontare la celia della pietra e dell’albero, nessuno si era accorto che era una celia, il direttore aveva ragione. La testa gli faceva male. Volse lo sguardo interiormente, verso le configurazioni calme.
Se un libro fosse stato scritto completamente con numeri, sarebbe stato vero. Sarebbe stato giusto. Nulla detto a parole usciva perfettamente pareggiato, mai. Le cose dette a parole si ingarbugliavano e cozzavano tra loro, invece di rimanere dritte e di incastrarsi bene le une nelle altre. Ma al di sotto delle parole, al centro, come al centro del Quadrato, tutto si pareggiava. Ogni cosa poteva cambiare, eppure nulla si sarebbe perduto. Se vedevi i numeri potevi vederlo: l’equilibrio, lo schema armonioso. Vedevi le fondamenta del mondo. Ed esse erano solide.
Shevek aveva imparato ad attendere. E in questo era molto bravo: un vero esperto. Aveva imparato inizialmente quest’arte aspettando che sua madre Rulag ritornasse, anche se la cosa era successa così tanto tempo prima che egli non la ricordava più; poi aveva approfondito l’arte aspettando il proprio turno, aspettando di dividere, aspettando la propria parte. All’età di otto anni chiedeva perché, e come, e cosa succederebbe se, ma raramente chiedeva quando.
Attese fino a quando giunse il padre per portarlo con sé in visita domiciliare. Fu una lunga attesa: sei decadi. Palat aveva preso un breve incarico di manutenzione all’Impianto Recupero Acque di Monte Tamburo, e alla fine dell’incarico contava di prendersi una decade ai bagni di Malennin, dove intendeva nuotare, riposarsi e copulare con una donna chiamata Pipar. Aveva spiegato tutto questo al figlio. Shevek si fidava di lui, ed egli non deludeva questa fiducia. Alla fine dei sessanta giorni, Palat apparve al dormitorio dei bambini di Piano Grande: un uomo alto e sottile, con lo sguardo più melanconico che mai. Copulare non era in realtà ciò che voleva. Rulag lo era. Quando vide il ragazzo, sorrise, e la sua fronte si increspò con dolore.
Ciascuno prese piacere dalla compagnia dell’altro.
— Palat, hai mai visto un libro con tutti numeri?
— Cosa vuoi dire, di matematica?
— Forse sì.
— Come questo?
Palat prese dalla tasca un libro. Era piccolo, fatto per stare in tasca, e come quasi tutti i libri era rilegato in verde, con il Cerchio della Vita impresso sulla copertina. Era stampato fitto, in caratteri piccoli e con margini esigui, poiché la carta è una sostanza che richiede molte piante di holum e molta fatica umana per la propria produzione, come il dispensatore del centro di apprendimento faceva sempre notare a chi impiastricciava un foglio e andava a farsene dare un altro. Palat porse a Shevek il libro aperto. Le due pagine erano una serie di colonne di numeri. Eccoli lì, proprio come li aveva immaginati. Nelle sue mani ricevette il pegno dell’eterna giustizia. Tavole dei Logaritmi, Base 10 e 12, diceva il titolo sulla copertina, al di sopra del Cerchio della Vita.
Il bambino studiò la prima pagina per un certo tempo. — A che cosa servono? — chiese, poiché evidentemente quelle configurazioni di numeri non erano presentate esclusivamente per la loro bellezza. L’ingegnere, seduto su un duro pagliericcio accanto a lui, nella stanza comune del domicilio, fredda e scarsamente illuminata, cominciò a spiegargli i logaritmi. Due vecchi, dall’altra parte della stanza, ridacchiavano, occupati a giocare a «Punto più Alto». Entrò una coppia di adolescenti, che chiese se la camera singola era libera per quella notte e che poi vi si recò. La pioggia colpì con rumore sordo il tetto metallico del domicilio a un solo piano, e poi si fermò. La pioggia non durava mai a lungo. Palat prese il proprio regolo calcolatore e ne mostrò a Shevek il funzionamento; in cambio Shevek gli mostrò il Quadrato e il principio della sua disposizione. Era già molto tardi quando compresero che si era fatto tardi. Fecero di corsa la strada, attraverso l’oscurità fangosa, meravigliosamente profumata di pioggia, fino al dormitorio dei bambini, e si presero la rituale sgridata del sorvegliante notturno. Si baciarono frettolosamente, entrambi scossi dal riso, e Shevek corse nella grande camerata, e poi alla finestra, da cui poté vedere il padre che ripercorreva in senso inverso l’unica strada di Piano Grande, nell’oscurità umida e blu.
Il bambino andò a letto con le gambe ancora sporche di fango, e sognò. Sognò di percorrere una strada, in mezzo a una landa spoglia. Molto avanti a sé, attraverso la strada, scorse una linea. Quando vi si avvicinò, vide che era un muro. Si stendeva da un orizzonte all’altro, e attraversava tutta la landa spoglia. Era denso, scuro, e molto alto. La strada giungeva fino ai suoi piedi, e veniva arrestata.
Egli doveva andare avanti, e non poteva. Il muro lo fermava. Una dolorosa, rabbiosa paura sorse in lui. Doveva andare avanti, altrimenti non sarebbe mai riuscito a ritornare a casa. Ma davanti a lui s’innalzava il muro. Non c’era modo di passare.
Picchiò le mani contro la superficie levigata e urlò. La voce gli uscì priva di parole, gracchiante. Spaventato dal suono della propria voce, si rannicchiò a terra e allora udì un’altra voce che diceva: «Guarda». Era la voce di suo padre. Gli pareva che anche sua madre Rulag fosse presente, ma non la vide (non aveva ricordo del suo viso). Gli pareva che la madre e Palat fossero entrambi nell’oscurità sotto il muro, chini sulle quattro zampe, più massicci degli esseri umani e con forma diversa. Indicavano qualcosa, gli mostravano qualcosa sul terreno, sulla polvere aspra da cui non cresceva nulla. E là c’era una pietra. Era scura come il muro, ma su di essa, o nel suo interno, c’era un numero; un 5, egli pensò in un primo istante, poi lo prese per un 1, e infine comprese che cosa fosse: il numero primario, che era insieme l’unità e la pluralità. «Ecco la pietra angolare» disse una voce a lui caramente familiare, e Shevek venne trapassato dalla gioia. Non c’era alcun muro nelle ombre, ed egli si accorse di essere tornato, di essere a casa.
In seguito non riuscì a ricordare i particolari del sogno, ma non dimenticò mai quell’accesso di penetrante gioia. Non aveva mai conosciuto nulla di simile; così certa era la prova della sua permanenza, come basta un’occhiata sola a una luce che brilla incessantemente, che non pensò mai a quella gioia come a qualcosa d’irreale, anche se l’aveva sperimentata unicamente nel sogno. Solo che, per quanto fosse sicuramente laggiù, egli non poté più riacquistarla, né col desiderio né con un atto di volontà. Riuscì solamente a ricordarla, da sveglio. Quando sognò nuovamente il muro, come a volte gli occorse, il sogno era greve, privo di sbocco.