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Egli annuì.

— Renderebbe possibile una lega dei pianeti. Una federazione. Siamo stati sempre lontani a causa degli anni, dei decenni fra la partenza e l’arrivo, tra la domanda e la risposta. È come se lei avesse inventato il linguaggio umano! Possiamo parlare, finalmente possiamo parlare insieme.

— E che cosa vi direte?

La sua amarezza sorprese Keng. Ella lo guardò e non disse nulla.

Egli si piegò in avanti sulla poltrona e si strofinò dolorosamente la fronte. — Vede — disse, — devo spiegarle perché sono venuto da voi, e anche perché sono venuto su questo mondo. Sono venuto per l’idea. Per amore dell’idea. Per imparare, per insegnare, per condividere l’idea. Su Anarres, vede, ci siamo isolati. Non parliamo con l’altra gente, il resto dell’umanità. Laggiù non potevo terminare il mio lavoro. E se fossi stato capace di terminarlo, essi non l’avrebbero voluto, non sapevano cosa farsene. Perciò sono venuto qui. Qui c’è quello che cerco: parlare, condividere, un esperimento al Laboratorio che dimostra una cosa che non avrebbe dovuto dimostrare, un libro sulla Teoria della Relatività proveniente da un altro mondo, lo stimolo che mi occorre. E così ho finito il lavoro, finalmente. Non l’ho ancora scritto tutto per disteso, ma ho tutte le equazioni e i vari punti del ragionamento: è finito. Ma le idee che ho nella testa non sono le uniche idee importanti per me. Anche la mia società è un’idea. Io sono stato fatto da essa. Un’idea di libertà, di cambiamento, di solidarietà umana, un’idea importante. E anche se sono stato molto stupido, alla fine ho visto che portando avanti l’una, la fisica, tradivo l’altra. Permettevo ai proprietaristi di comprare la verità da me.

— Che altro poteva fare, Shevek?

— Non c’è alternativa al vendere? Non esiste una cosa come il donare?

— Sì…

— Non capisce che voglio darla a voi… e ad Hain e agli altri mondi… e alle nazioni di Urras. Ma a voi tutti! In modo che uno di voi non possa usarla, come vorrebbe fare l’A-Io, per ottenere potere sugli altri, per diventare più ricco o per vincere più guerre. In modo che non possiate usare la verità per il vostro profitto privato, ma soltanto per il bene comune.

— Alla fine, la verità si pregia di servire soltanto il bene comune — disse Keng.

— Alla fine, sì, ma io non ho voglia di aspettare questa fine. Io ho una sola vita e non intendo spenderla per l’avidità, il profitto e le menzogne. Io non intendo servire nessun padrone.

La calma di Keng era qualcosa di molto più forzato, voluto, di quanto non lo fosse stata all’inizio della loro conversazione. La forza della personalità di Shevek, non frenata da alcun imbarazzo e da alcuna considerazione apologetica, era terribile. Ella era rimasta scossa dalle sue parole, e lo fissava commossa e un po’ in soggezione.

— Com’è — domandò, — come può essere, la società che l’ha fatta, Shevek? L’ho sentita parlare di Anarres, nella Piazza, e ho pianto nell’ascoltare le sue parole, ma in realtà non le ho creduto completamente. Gli uomini parlano sempre così della loro casa, della loro terra lontana… Ma lei non è affatto come gli altri. In lei c’è una differenza.

— La differenza dell’idea — egli disse. — Ed è per questa idea, inoltre, che sono venuto qui. Per Anarres. Poiché il mio Popolo si rifiuta di guardare all’esterno, ho pensato che avrei potuto indurre gli altri a guardare noi. Pensavo che sarebbe stato meglio, anziché tenerci lontano, dietro un muro, essere una società come le altre, un pianeta tra gli altri, che dà e che prende. Ma qui mi sbagliavo… mi sbagliavo da cima a fondo.

— Perché? Certamente…

— Perché non c’è nulla, assolutamente nulla su Urras di cui noi anarresiani abbiamo bisogno! Noi lo lasciammo con le mani vuote, cento e settanta anni fa, e avemmo ragione. Noi non prendemmo nulla. Poiché qui non c’è altro che gli Stati e le loro armi, i ricchi e le loro bugie, e i poveri e la loro miseria. Non c’è modo di agire rettamente, con un cuore trasparente, su Urras. Non c’è nulla che possiate fare in cui non entrino il profitto, e la paura di una perdita, e il desiderio di potere. Non puoi dire buongiorno a una persona senza sapere chi di voi è «superiore» all’altro, o senza cercare di dimostrarlo. Non puoi agire come un fratello verso le altre persone; devi manipolarle, o comandarle, o obbedire loro, o imbrogliarle. Non puoi toccare un’altra persona, eppure non ti lasceranno mai solo. Non c’è libertà. È una scatola… Urras è una scatola, un pacchetto, con tutta la sua meravigliosa confezione del cielo turchino e dei prati e delle foreste e delle grandi città. E tu apri la scatola, e cosa ci trovi dentro? Una cantina buia piena di polvere, e un uomo morto. Un uomo cui fu troncata la mano perché la tendeva agli altri. Sono stato nell’inferno, infine. Desar aveva ragione; è Urras; l’inferno è Urras.

Nonostante tutta la sua passione, egli parlava semplicemente, con una sorta di umiltà, e anche ora l’Ambasciatrice della Terra lo osservò con meraviglia, leggermente guardinga ma con piena comprensione, come se non sapesse come accogliere quella semplicità.

— Siamo entrambi stranieri, qui, Shevek — disse infine. — E io vengo da assai più lontano nel tempo e nello spazio. Eppure comincio a pensare di essere meno straniera a Urras di quanto non lo sia lei… Mi permetta di dirle come appare, a me, questo mondo. Per me, e per tutti i miei colleghi della Terra che hanno visto questo pianeta, Urras è il più gentile, il più vario, il più bello dei mondi abitati. È il mondo che più si avvicina, nei limiti del possibile, al paradiso.

Lo fissò con calma e con profondità; egli non disse nulla.

— So che è pieno di mali, pieno di ingiustizia umana, avidità, follia, sprechi. Ma è anche pieno di bene, di bellezza, di vitalità, di successi! È come un pianeta dovrebbe essere! È vivo, tremendamente vivo… vivo, nonostante tutti i suoi mali, di speranza. Non è vero?

Egli annuì.

— Ora, lei, uomo di un mondo che io non so neppure immaginare, lei che vede il mio paradiso come l’inferno, vuol chiedermi com’è invece il mio mondo?

Egli non disse nulla; la fissava attentamente, i suoi occhi chiari erano impassibili.

— Il mio mondo, la mia Terra, è una rovina. Un pianeta rovinato dalla specie umana. Ci siamo moltiplicati e ci siamo ingozzati e abbiamo combattuto finché non è rimasto più nulla, e poi siamo morti. Non abbiamo controllato né gli appetiti né la violenza; non ci siamo adattati. Abbiamo distrutto noi stessi. Ma prima abbiamo distrutto il nostro mondo. Non rimangono più foreste sulla mia Terra. L’aria è grigia, il cielo è grigio, fa sempre caldo. È abitabile, è ancora abitabile, ma non come questo mondo. Questo è un mondo vivo, un’armonia. Il mio è una dissonanza. Voi Odoniani avete scelto un deserto; noi Terrestri abbiamo fatto un deserto… Laggiù noi sopravviviamo, come voi. La gente è resistente! C’è quasi mezzo miliardo di noi. Una volta ce n’erano nove miliardi. Puoi vedere ancora dappertutto le vecchie città. Le ossa e i mattoni vanno in polvere, ma i piccoli pezzi di plastica no… anch’essi non s’adattano. Noi abbiamo fallito come specie, come specie sociale. Noi siamo qui, ora, a trattare da pari a pari con le altre società umane sugli altri mondi, soltanto grazie alla carità degli Hainiti. Essi vennero da noi; essi ci portarono aiuto. Costruirono navi e ce le donarono, in modo che potessimo lasciare il nostro mondo rovinato. Ci trattano gentilmente, caritatevolmente, come un uomo forte può trattare uno malato. Sono un popolo molto strano, gli Hainiti; più antichi di qualsiasi altro; infinitamente generosi. Sono degli altruisti. Sono spinti da un sentimento di colpa che noi non riusciamo neppure a capire, nonostante tutti i nostri crimini. Essi sono spinti, in tutto ciò che fanno, io credo, dal passato, dal loro interminabile passato. Ebbene, abbiamo salvato il salvabile, e organizzato una sorta di vita nelle rovine, su Terra, nell’unico modo in cui la si poteva organizzare: centralizzazione totale. Totale controllo sull’uso di ogni acro di terreno, ogni pezzo di metallo, ogni grammo di carburante. Totale razionamento, controllo delle nascite, eutanasia, coscrizione universale nella forza lavoro. L’assoluta irreggimentazione di ciascuna vita per raggiungere la meta della sopravvivenza razziale. Eravamo arrivati a questo, quando giunsero gli Hainiti. Essi ci portarono… un po’ più di speranza. Non molta. Noi l’abbiamo oltrepassata… Noi possiamo soltanto guardare a questo splendido mondo, a questa vitale società, a questo Urras, questo paradiso, dall’esterno. Siamo capaci solo di ammirarlo, e forse di invidiarlo un poco. Non molto.