Выбрать главу

— Chiaro, no; aperto, sì. Aperto come una scorreggia — disse Bedap. — La chiarezza è una funzione del pensiero. Dovresti imparare un po’ di Odonianesimo, prima di aprire la bocca qui dentro.

— Tu non sei degno di pronunciare il nome di Odo! — urlò il giovane. — Tu sei un traditore, tu e tutto il tuo Gruppo! Su tutta Anarres ci sono persone che vi sorvegliano. Tu pensi che noi non sappiamo che a Shevek è stato chiesto di andare su Urras, di andarci per vendere la scienza anarresiana ai profittatori? Credi che non sappiamo che tutti voi piagnoni vorreste andarci per vivere la vita dei ricchi e farvi battere manate sulle spalle dai proprietaristi? Potete andare! Grazie per averci liberati di voi! Ma se cercherete di ritornare nuovamente qui, farete l’incontro con la giustizia!

Si era alzato e si sporgeva sul tavolo, urlava direttamente in faccia a Bedap. Bedap alzò lo sguardo su di lui e disse: — Tu non vuoi dire giustizia, tu vuoi dire punizione. Credi che siano la stessa cosa?

— Vuol dire violenza — disse Rulag. — E se ci sarà violenza, l’avrete causata voi. Voi e il vostro Gruppo. E ve la sarete meritata.

Un uomo sottile, piccolo, di mezza età, vicino a Trepil, cominciò a parlare, dapprima così piano, con una voce resa roca dalla tosse da polvere, che pochi dei presenti lo udirono. Era un osservatore proveniente da un gruppo di minatori del Sudovest, e non ci si aspettava che prendesse la parola su quell’argomento. — … si meriti un uomo — stava dicendo. — Poiché ciascuno di noi merita ogni cosa, ogni lusso che fu mai accumulato nelle tombe dei defunti sovrani, e ciascuno di noi non merita nulla, neppure un boccone di pane quando ha fame. Non abbiamo noi forse mangiato mentre un altro moriva di fame? Ci punirete per questo? Ci premierete per la virtù di morire di fame mentre altri mangiava? Nessun uomo si merita una punizione, nessun uomo si merita un premio. Liberate la vostra mente dall’idea del meritare, e allora comincerete a essere capaci di pensare. — Si trattava, naturalmente, di parole di Odo tratte dalle Lettere dalla Prigione, ma così pronunciate, dalla voce debole, roca del minatore, facevano uno strano effetto, come se le concepisse egli stesso in quel momento, parola per parola: come se provenissero dal suo stesso cuore, lentamente, con difficoltà, così come l’acqua sgorga lentamente, lentissimamente, dalle sabbie del deserto.

Rulag ascoltò, con la testa eretta, il viso teso come quello di una persona che cerca di vincere un dolore. Di fronte a lei, dall’altro lato del tavolo, Shevek era ancora seduto, con la testa china. Le parole lasciarono dietro di sé un silenzio, ed egli alzò lo sguardo e parlò in quel silenzio.

— Vedete — disse, — la cosa che noi cerchiamo è di ricordare a noi stessi che non siamo venuti su Anarres per la sicurezza, ma per la libertà. Se dobbiamo essere tutti d’accordo, tutti lavorare insieme, allora non siamo migliori di una macchina. Se un individuo non può lavorare in solidarietà con i suoi colleghi, allora è suo dovere lavorare da solo. Suo dovere e suo diritto. Noi stiamo dicendo, sempre e sempre più spesso: tu devi lavorare con gli altri, tu devi accettare il comando della maggioranza. Ma ogni comando è tirannia. Il dovere dell’individuo è quello di non accettare nessun comando, di essere l’iniziatore dei propri atti, di essere responsabile. Soltanto se egli così farà, la società vivrà, e cambierà, e si adatterà, e sopravviverà. Noi non siamo i sudditi di uno Stato fondato sulla legge, bensì i membri di una società fondata sulla rivoluzione. La rivoluzione è il nostro obbligo: la nostra speranza di evoluzione. «La Rivoluzione è nello spirito individuale, oppure non è da nessuna parte. È per tutto, oppure non è niente. Se la si vede come qualcosa che abbia un fine preciso, una fine precisa, non avrà mai veramente inizio.» Noi non possiamo fermarci qui. Noi dobbiamo proseguire. Dobbiamo assumerci i rischi.

Rulag rispose, calma come lui, ma molto freddamente: — Non hai diritto di esporci tutti a un rischio che sei spinto ad assumerti per motivi personali.

— Nessuno che non sia disposto ad andare fino a dove voglio andare io ha diritto di impedirmi di andare — rispose Shevek. I loro occhi si incontrarono per un attimo; entrambi abbassarono lo sguardo.

— Il rischio di un viaggio su Urras non tocca altro che la persona che parte — disse Bedap. — Non cambia nulla dei Termini dell’Insediamento, e nulla del nostro rapporto con Urras, eccetto che, forse, moralmente… a nostro vantaggio. Ma non credo che siamo pronti, che nessuno di noi lo sia, per decidere su questo argomento. Per il momento ritiro la questione, se gli altri sono d’accordo.

Gli altri assentirono, ed egli e Shevek lasciarono la riunione.

— Devo andare all’Istituto — disse Shevek, quando uscirono dall’edificio del CDP. — Sabul mi ha mandato uno dei suoi ritagli delle unghie… il primo dopo anni. Che avrà in mente, mi chiedo?

— Che cosa avrà in mente quella Rulag, mi chiedo io! Quella donna ha del rancore personale nei tuoi riguardi. Invidia, credo. Non bisogna più mettere voi due alla stessa tavola, altrimenti non approderemo mai a niente. E anche quel giovane degli Altipiani del Nord è una brutta novità. Comando della maggioranza e la forza che diventa diritto! Riusciremo a far ascoltare il nostro messaggio, Shevek, o stiamo soltanto facendo irrigidire l’opposizione?

— Forse dovremmo davvero inviare qualcuno su Urras… dimostrare il nostro diritto per mezzo dell’azione, se le parole non basteranno.

— Forse. Purché non si tratti di me! Sono disposto a diventare viola a forza di parlare del nostro diritto di lasciare Anarres, ma se dovessi essere io a farlo, dannazione, mi taglierei la gola.

Shevek rise. — Io devo andare. Sarò a casa tra un’ora, più o meno. Vieni a mangiare con noi questa sera.

— Vado ad aspettarti alla stanza.

Shevek si avviò per la strada con la sua lunga falcata; Bedap rimase fermo davanti all’edificio del CDP, esitante. Si era a metà del pomeriggio, e la giornata primaverile era ventosa, soleggiata, fredda. Le strade di Abbenay erano chiare, terse, vive di luce e di persone. Bedap si sentiva insieme eccitato e abbattuto. Ogni cosa, comprese le sue emozioni, era promettente, ma insoddisfacente. Si avviò in direzione del domicilio dell’isolato Pekesh dove Shevek e Takver abitavano ora, e trovò, come aveva sperato, Takver in casa con la bambina.

Takver aveva abortito due volte e poi era giunta Pilun, tardi e un po’ inattesa, ma assai benvenuta. Era piccola alla nascita, ed ora, avvicinandosi ai due anni, era ancora piccola, con braccia e gambe minute, molto sottili. Quando Bedap la teneva, era sempre vagamente allarmato o respinto dal contatto di quelle braccia, così fragili ch’egli avrebbe potuto romperle con un semplice movimento della mano. Amava molto Pilun, era affascinato dai suoi occhi grigi e nebbiosi, conquistato dalla sua profonda fiducia, ma ogni volta che la toccava, capiva consciamente, come in precedenza non gli era mai occorso, quale sia l’attrazione della crudeltà, perché il forte tormenta il debole. E perciò — sebbene egli non fosse capace di spiegare le ragioni di quel «perciò» — capiva anche una cosa che non aveva mai avuto molto senso per lui, anzi che non l’aveva mai interessato affatto: il sentimento paterno. Provava un piacere straordinario quando Pilun lo chiamava tadde.

Si sedette sulla predella del letto sotto la finestra. Era una stanza di buone dimensioni, con due predelle. Sul pavimento c’era una stuoia; non c’era altro arredamento, né sedie né tavolo, soltanto un piccolo recinto mobile che delimitava uno spazio di gioco o proteggeva il letto di Pilun. Takver aveva aperto il cassetto lungo e largo dell’altra predella, e metteva a posto pile di fogli di carta in esso contenute. — Tienimi Pilun, caro Bedap! — disse con il suo largo sorriso, quando la bambina cominciò ad avviarsi verso di lui. — Mi ha pasticciato questi fogli almeno dieci volte, ogni volta che li ho messi a posto. Qui avrò finito tra un minuto… dieci, anzi.