— Sei stato all’Istituto? — chiese Takver, voltandosi verso di lui, che le si era seduto accanto.
— Ci sono andato adesso. Sabul mi aveva lasciato questa mattina un messaggio al Gruppo. — Shevek bevve il suo succo di frutta e abbassò la tazza, rivelando un curioso atteggiamento della sua bocca: una non-espressione. — Ha detto che la Federativa di Fisica ha libero un incarico a tempo pieno. Autonomo, permanente.
— Per te, vuoi dire? Laggiù? All’Istituto?
Egli annuì.
— Te l’ha detto Sabul?
— Cerca di arruolarti — disse Bedap.
— Sì, lo credo anch’io. Se non riesci a sradicarlo, addomesticalo, come dicevamo nell’Insediamento del Nord. — Shevek rise, bruscamente e spontaneamente. — E divertente, no? — disse.
— No — disse Takver. — Non è divertente. È disgustoso. Anzi, come hai potuto andare a parlare con lui? Dopo tutte le calunnie che ha diffuso sul tuo conto, le bugie sul fatto che i Princìpi erano stati rubati a lui, e il non averti detto che gli urrasiani ti avevano dato quel premio, e poi, l’anno scorso, quando ha fatto sciogliere quei ragazzi che avevano organizzato la serie di lezioni e li ha fatti allontanare a causa della tua «influenza cripto-autoritaristica» su di loro… proprio tu, un autoritarista! … è stato vomitevole, imperdonabile. Come puoi comportarti urbanamente con un uomo simile?
— Be’, non è soltanto Sabul, lo sai. Sabul è solo il portavoce.
— Lo so, ma a lui piace fare il portavoce. E si è comportato in modo schifoso per tanto tempo! Be’, cosa gli hai detto?
— Ho temporeggiato… come diresti tu — disse Shevek, e rise di nuovo. Takver lo osservò nuovamente, poiché adesso era certa che, nonostante il suo controllo, egli era in uno stato di tensione o di eccitazione estrema.
— Dunque, non gli hai detto un no deciso?
— Ho detto che alcuni anni fa mi ero ripromesso di non accettare alcuna assegnazione regolare di lavoro, per essere in grado di svolgere lavoro teorico. E così egli ha detto che, trattandosi di un incarico autonomo, sarei stato pienamente libero di portare avanti la ricerca che stavo facendo, e che lo scopo di dare a me l’incarico era quello di… sentite come l’ha messa lui… «facilitare l’accesso alla strumentazione sperimentale dell’Istituto, e ai regolari canali di pubblicazione e di diffusione.» Le edizioni del CDP, in altre parole.
— Be’, allora hai vinto — disse Takver, guardandolo con una strana espressione. — Hai vinto. Stamperanno ciò che tu scrivi. È quello che volevi quando siamo tornati qui cinque anni fa. I muri sono stati abbattuti.
— Ci sono dei muri dietro ai muri — disse Bedap.
— Avrò vinto soltanto se accetterò l’incarico. Sabul mi offre di… legalizzarmi. Di rendermi ufficiale. Allo scopo di separarmi dal Gruppo dell’Iniziativa. Non appare anche a te che sia questo il suo motivo, Bedap?
— Certo — disse Bedap. La sua faccia era cupa. — Dividi per indebolire.
— Ma riportare Shevek nell’Istituto, e stampare nelle edizioni del CDP ciò ch’egli scrive, è dare implicitamente un’approvazione a tutto il Gruppo, no?
— Potrebbe significare questo per molte persone — disse Shevek.
— No, non lo significherebbe affatto — disse Bedap. — Verrà spiegato. Il grande fisico è stato fuorviato da un gruppo di dissidenti, per un certo periodo. Gli intellettuali si lasciano sempre fuorviare, poiché essi pensano a cose irrilevanti come il tempo, lo spazio e la realtà, cose che non hanno niente a che vedere con la vita quotidiana, e così vengono facilmente ingannati dai cattivi deviazionisti. Ma i buoni Odoniani dell’Istituto gli hanno cortesemente spiegato i suoi errori, ed egli è ritornato sul sentiero della verità social-organica. Privando così il Gruppo dell’Iniziativa del suo unico concepibile elemento capace di richiamare seriamente l’attenzione di tutti gli abitanti di Urras e Anarres.
— Non intendo abbandonare il Gruppo, Bedap.
Bedap sollevò la testa e disse dopo un attimo: — No, so che non intendi farlo.
— Bene. Andiamo a pranzo. Ho la pancia che borbotta: la senti, Pilun? Rrowr, rrowr!
— Ohp! — disse Pilun, in tono di comando. Shevek la afferrò e poi si raddrizzò, portandola sulla propria spalla. Dietro la sua testa e quella della bambina, l’unica scultura mobile appesa nella stanza oscillò piano. Era una grossa scultura, fatta di fili appiattiti, che, di lato, quasi scomparivano alla vista; avevano forma ovale, e questi ovali, di tempo in tempo, sparivano; ugualmente sparivano, in certe condizioni di luce, le sottili e trasparenti bolle di vetro che si muovevano nell’interno dei fili ovali e che formavano orbite ellissoidali intorno al centro comune, senza mai incontrarsi completamente, senza mai totalmente separarsi. Takver la chiamava Abitazione del Tempo.
Si recarono alla mensa di Pekesh, e attesero che la tabella indicasse una rinuncia, in modo da poter portare Bedap come ospite. Bedap si registrò presso la mensa, e questo suo atto lo cancellò dalla mensa in cui mangiava di solito: il sistema era coordinato da un calcolatore, sull’intera città. Era uno dei «processi omeostatici» altamente meccanizzati favoriti dai primi Coloni e che persistevano soltanto ad Abbenay. Come vari altri metodi meno sofisticati che venivano usati altrove, esso non funzionava mai perfettamente; c’erano carenze, eccessi e frustrazioni, ma niente di grave. Le rinunce alla mensa di Pekesh erano rare, poiché la sua cucina godeva la fama di essere la migliore di Abbenay e aveva una tradizione di grandi cuochi. Infine apparve un’apertura, ed essi entrarono. Due giovani che Bedap conosceva di vista e che erano vicini di domicilio di Shevek e Takver si unirono a loro al tavolo. Altri non vennero… o non vollero venire? Qual era l’ipotesi corretta? Non parve importare. Mangiarono un buon pasto e passarono piacevolmente il tempo chiacchierando tra loro. Ma ogni tanto Bedap provò l’impressione che intorno a loro ci fosse un cerchio di silenzio.
— Non so che cosa inventeranno ancora gli urrasiani — disse, e sebbene stesse parlando senza impegno, scoprì, con fastidio, di avere abbassato la voce. — Hanno chiesto di venire qui, e hanno chiesto a Shevek di andare da loro; quale sarà la loro prossima mossa?
— Non sapevo che avessero chiesto a Shevek di andare da loro — disse Takver, corrugando leggermente la fronte.
— Sì, lo sapevi — disse Shevek. — Quando mi hanno detto di avermi dato il premio, sai, il Seo Oen, mi hanno chiesto se potevo andare, ricordi? Per prendere il denaro del premio! — Shevek sorrise, radioso. Anche se c’era un cerchio di silenzio intorno a loro, egli non se ne preoccupava: era sempre stato solo.
— Vero. Lo sapevo. Soltanto, non mi era parsa una possibilità concreta. Da decadi parlate di suggerire alla riunione del CDP che qualcuno si rechi su Urras, tanto per sconvolgerli.
— Ed è quanto abbiamo finalmente fatto, oggi pomeriggio. Bedap mi ha indotto a dirlo.
— E ne sono rimasti sconvolti?
— Gli si sono rizzati i capelli, usciti gli occhi dalle orbite…
Takver rise. Pilun sedeva su un seggiolone accanto a Shevek e si esercitava i denti su un pezzo di pane di holum e la voce facendo versi. — O manieri bateri — proclamò, — abberi abberi babberi dab! — Shevek, sempre versatile, le rispose nella stessa vena. La conversazione degli adulti continuò senza molta attenzione e con interruzioni. Bedap non se la prese; da tempo aveva imparato che occorreva accettare Shevek con tutte le sue complicazioni, oppure lasciarlo perdere. La più silenziosa di tutti era Sedik.
Bedap rimase con loro ancora per un’ora, dopo il pasto, nella camera comune del domicilio, ch’era bella e spaziosa, e quando Sedik si alzò per uscire, si offrì di accompagnarla al dormitorio della scuola, che era sulla sua strada. A queste parole, accadde qualcosa, uno di quegli eventi o di quei segnali che risultano chiari soltanto ai membri della stessa famiglia; l’unica cosa che Bedap capì, fu che Shevek, senza mostrare fastidio e senza dir nulla, li accompagnò. Takver doveva andare a dare da mangiare a Pilun, che diventava sempre più rumorosa. Takver diede il bacio del saluto a Bedap, che si allontanò con Sedik e Shevek, chiacchierando con luì. Parlavano fitto, e non si accorsero di avere superato il centro di apprendimento. Tornarono indietro, e trovarono Sedik ferma davanti all’entrata del dormitorio. Era immobile, dritta e sottile, con il viso teso, nella debole luce della lampada stradale. Shevek rimase altrettanto immobile per un momento, poi si avvicinò a lei. — Che cosa è successo, Sedik?