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— E varrebbe la pena per te… affrontare il rischio?

Per un lungo istante, egli fissò nel vuoto. — Sì — disse. — In un certo senso varrebbe il rischio. Se potessi finire la teoria laggiù, e darla a loro… a noi, a loro, a tutti i mondi, capisci… mi piacerebbe farlo. Qui mi sento chiuso tra muri. Anchilosato. Mi è difficile lavorare, fare esperimenti, sono sempre senza strumenti, senza colleghi e senza studenti. E quando faccio il lavoro, non lo vogliono. Oppure, se lo vogliono, come Sabul, vogliono che io abbandoni l’iniziativa in cambio delle approvazioni. Useranno il lavoro che faccio, dopo che sarò morto: succede sempre così. Ma perché devo dare il lavoro di tutta la mia vita in regalo a Sabul, a tutti i Sabul, ai meschini, intriganti, avidi di un singolo pianeta? Io vorrei condividerlo. È un grande campo, quello in cui lavoro. Dovrebbe venire dato in giro, passato agli altri. Non c’è certamente il pericolo che si esaurisca!

— Allora, d’accordo — disse Takver. — Vale il rischio.

— Vale cosa?

— Il rischio. Di forse non poter tornare.

— Non poter tornare — egli ripeté. Fissò Takver con uno sguardo strano, profondo, eppure distratto.

— Penso che ci sia molta più gente dalla nostra parte, dalla parte del Gruppo, di quanto non pensiamo. Si tratta soltanto del fatto che finora non abbiamo ancora fatto molto… non abbiamo fatto nulla per raccoglierli… non abbiamo corso alcun rischio. Se tu corressi il rischio, credo che verrebbero ad aiutarti. Se tu aprissi la porta, fiuterebbero di nuovo l’aria pura, fiuterebbero la libertà.

— E potrebbero buttarsi di corsa a chiudere la porta.

— Se lo faranno, peccato per loro. Il Gruppo potrà difenderti quando atterrerai. E poi, se la gente sarà ancora così ostile e piena di odio, la manderemo all’inferno. Che vale una società anarchica che ha paura dell’anarchia? Andremo a vivere al Solitario, a Sedep Superiore, all’Infimo, andremo a vivere in solitudine sulle montagne, se occorrerà. C’è posto. Ci sarà gente che verrà con noi. Faremo una nuova comunità. Se la nostra società scivola verso la politica e la ricerca del potere, allora noi la lasceremo, faremo un’Anarres dopo Anarres, un nuovo inizio. Che ne dici?

— Bellissimo — disse lui, — bellissimo, cara. Ma io non andrò su Urras, lo sai.

— Oh, sì, invece. E tornerai — disse Takver. I suoi occhi erano molto scuri, un’oscurità morbida, come quella di una foresta nella notte. — Se decidi di farlo. Tu arrivi sempre dove ti proponi di andare. E torni sempre indietro.

— Non dire sciocchezze, Takver. Io non vado su Urras!

— Sono stanca — disse Takver, stirandosi e piegandosi per appoggiare la fronte contro il suo braccio. — Andiamo a dormire.

CAPITOLO 13

Prima che lasciassero l’orbita, gli oblò erano pieni del turchese nebbioso di Urras, immenso e bellissimo. Ma la nave si voltò, e le stelle giunsero in vista, e Anarres tra queste, simile a una pietra rotonda e luminosa: in movimento eppure immota, scagliata da una mano che, descrivendo cerchi senza tempo, crea il tempo.

Mostrarono a Shevek tutta la nave: l’astronave interstellare Davenant. Era molto diversa dal mercantile Pensiero. Dall’esterno appariva bizzarra e fragile come una scultura di vetro e fil di ferro; non aveva l’aspetto di una nave, di un veicolo: non aveva neppure un’estremità anteriore e una posteriore, poiché non viaggiava mai in un’atmosfera che avesse consistenza maggiore di quella del vuoto interplanetario. All’interno era spaziosa e robusta come una casa. Le stanze erano grandi e intime, le pareti erano coperte di pannelli di legno o di tappezzerie in stoffa; i soffitti erano alti. Solamente, era una casa con gli scuri accostati, poiché poche cabine avevano oblò, ed era molto tranquilla. Anche il ponte e le sale motori avevano la stessa tranquillità, e le macchine e gli strumenti avevano la stessa semplicità e praticità di forma degli apparati di una nave a vela. Per la ricreazione c’era un giardino, la cui illuminazione aveva le caratteristiche della luce solare, e l’aria era dolce dell’odore del terreno e delle foglie; durante la notte della nave il giardino veniva oscurato, e i suoi oblò aperti sulle stelle.

Anche se i viaggi interstellari duravano soltanto alcune ore o alcuni giorni di nave, un’astronave a velocità prossima a quella della luce come questa poteva passare mesi ad esplorare un sistema solare, o anni in orbita intorno a un pianeta dove l’equipaggio fosse sceso a vivere o esplorare. Pertanto era fatta in modo spazioso, a misura umana, abitabile, per coloro che dovevano vivere a bordo. Il suo stile non aveva né l’opulenza di Urras né l’austerità di Anarres, ma toccava l’equilibrio tra i due, con quella grazia priva di sforzo che è caratteristica della lunga pratica. Si poteva immaginare di condurre quella vita ristretta senza irritarsi per le sue restrizioni, accontentandosi, meditando. Erano gente meditabonda, gli Hainiti dell’equipaggio: individui civili, controllati, piuttosto cupi. C’era poca spontaneità in loro. Il più giovane degli Hainiti a bordo pareva più vecchio di ciascuno dei Terrestri.

Ma Shevek non li osservò molto, Terrestri e Hainiti, nel corso dei tre giorni in cui il Davenant, viaggiando a propulsione chimica a velocità convenzionali, effettuò il tragitto da Urras ad Anarres. Replicava quando gli parlavano; rispondeva volentieri alle domande, ma ne rivolgeva poche. Quando parlava, parlava da un silenzio interiore. Le persone del Davenant, soprattutto le più giovani, erano attratte da lui, come se egli avesse qualcosa che a loro mancava o se fosse qualcosa che esse desideravano essere. Parlavano molto tra loro, ma erano timide con lui. Egli non se ne accorse. Non badava quasi a loro. Badava soltanto ad Anarres, davanti a sé. Badava alla speranza ingannata e alla promessa mantenuta; all’insuccesso; e alle sorgenti entro lo spirito, finalmente dissigillate, di gioia. Era un uomo liberato dalla prigione, che tornava a casa alla famiglia. Ogni cosa che un simile uomo vede lungo il proprio cammino, egli la vede soltanto come riflessi di luce.

Il secondo giorno di viaggio, egli si trovava in sala comunicazioni, e parlava con Anarres per radio, prima sulla lunghezza d’onda del CDP, ed ora su quella del Gruppo dell’Iniziativa. Sedeva chino in avanti, e ascoltava o rispondeva con un fiotto della lingua chiara ed espressiva che era la sua lingua madre; a volte gesticolava con la mano libera, come se il suo interlocutore potesse vederlo, a volte rideva. Il nostromo della Davenant, un Hainita chiamato Ketho, che si occupava del contatto radio, lo osservava con attenzione. Ketho aveva passato un’ora dopo il pranzo, la sera prima, con Shevek, insieme con il comandante e altri membri dell’equipaggio; gli aveva chiesto, in un modo tranquillo, privo di pretese, Hainita, un mucchio di cose su Anarres.

Shevek si voltò finalmente verso di lui. — D’accordo, finito. Il resto può attendere finché non sarò a casa. Domani si metteranno in contatto con lei per disporre le procedure di atterraggio.

Ketho annuì. — Ha avuto qualche buona notizia — disse.

— Sì, certo. Almeno, alcune, come dite?, notizie vivaci. — Dovevano parlarsi in iotico. Shevek lo conosceva meglio di Ketho, il quale lo parlava in modo molto corretto e rigido. — L’atterraggio sarà una cosa emozionante — continuò Shevek. — Un mucchio di nemici e un mucchio di amici si troveranno sul campo. La buona notizia sono gli amici… Pare che ce ne sia un numero maggiore di quello che c’era alla mia partenza.

— Questo pericolo di aggressione, quando lei atterrerà — disse Ketho. — Certo i funzionari del Porto di Anarres pensano di poter controllare i dissidenti? Non le diranno deliberatamente di scendere per venire ucciso?

— Be’, mi proteggeranno. Ma sono anch’io un dissidente, dopotutto. Ho chiesto di correre il rischio. È il mio privilegio, sa, di Odoniano. — Sorrise a Ketho. L’Hainita non gli restituì il sorriso. Aveva la faccia seria. Era un bell’uomo di una trentina d’anni, alto e chiaro di pelle come un Cetiano, ma quasi glabro come un Terrestre, con lineamenti forti, virili.