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— Per scoprire com’è fatto un altro mondo. Per vedere che cos’è un «cavallo»!

— Infantile — disse Kvetur. — C’è vita anche su alcuni altri sistemi solari — e indicò con la mano il cielo illuminato dalla Luna, — così ci dicono. E allora? Noi abbiamo avuto la fortuna di nascere qui!

— Se fossimo migliori di ogni altra società umana — disse Tirin, — allora dovremmo aiutarla. Ma questo ci è proibito.

— Proibito? Parola non organica. Chi lo probisce? Stai esternalizzando la funzione integrativa stessa — disse Shevek, piegandosi in avanti e parlando con passione. — L’ordine non sono «ordini». Noi non lasciamo Anarres perché noi siamo Anarres. Dato che tu sei Tirin, non puoi lasciare la pelle di Tirin. Forse ti piacerebbe cercare di essere qualcun altro, per vedere cosa si prova; ma tu non puoi farlo. E allora, forse ti viene impedito con la forza? E noi, siamo tenuti qui con la forza? Quale forza… quali leggi, governi, polizia? Nessuno. Semplicemente la nostra natura di Odoniani. È la tua natura quella di essere Tirin, ed è la mia natura quella di essere Shevek, e nostra comune natura è quella di essere Odoniani, responsabili l’uno all’altro. E questa responsabilità è la nostra libertà. Evitarla, sarebbe perdere la nostra libertà. A te, piacerebbe davvero vivere in una società nella quale tu non avessi alcuna responsabilità e alcuna libertà, alcuna scelta, soltanto la falsa opzione dell’obbedienza alla legge, o la disobbedienza seguita poi dalla punizione? Vorresti davvero andare a vivere in una prigione?

— Oh, diavolo, no. E lasciami parlare! Il guaio, con te, Shevek, è che non dici niente fino a quando non ti sei messo da parte un vagone di argomentazioni maledettamente pesanti, e a quel punto le scarichi addosso tutte assieme, senza poi curarti del povero corpo lacero e contuso che giace sotto il mucchio…

Shevek raddrizzò la schiena, vendicato.

Ma Bedap, che era un ragazzo di corporatura massiccia, dalla mascella quadrata, continuò a rosicchiarsi l’unghia e disse: — Comunque, le parole di Tirin restano vere. Sarebbe bello essere sicuri di sapere tutta la verità su Urras.

— Chi credi che ci stia mentendo? — domandò Shevek. Placidamente, Bedap incontrò il suo sguardo. — Chi, fratello? Chi altri, se non noi stessi?

Il pianeta gemello continuò a illuminarli, sereno e brillante: un bellissimo esempio dell’improbabilità del reale.

L’imboschimento del Litorale Temeniano Occidentale era una delle grandi opere del quindicesimo decennio dell’Insediamento di Anarres: vi furono impiegate quasi diciottomila persone per un periodo di due anni.

Sebbene le lunghe spiagge del Sudest fossero fertili, e mantenessero varie comunità di pescatori e di agricoltori, il terreno arabile consisteva solamente in una piccola striscia a fianco del mare. Verso l’interno e verso ovest, per tutta la pianura del Sudovest, la zona era disabitata, ad eccezione di alcune città minerarie isolate. Era la regione chiamata la Polvere.

Nella precedente èra geologica, la Polvere era stata un’immensa foresta di holum, l’onnipresente, dominante genere vegetale di Anarres. Il clima attuale era più caldo e più secco. Millenni di siccità avevano ucciso gli alberi e prosciugato il suolo fino a ridurlo a una polvere grigia e sottile che adesso si innalzava ad ogni soffio di vento, formando montagnole altrettanto pure di linea e altrettanto spoglie quanto ogni duna di sabbia. Gli anarresiani speravano di ridare fertilità a quel terreno mobile piantando nuovamente la foresta. Questo, pensava Shevek, in accordo con il principio di Riversibilità Causale, ignorato dalla scuola Sequenziale della fisica attualmente in auge su Anarres, ma pur sempre un elemento tacito, intimo, del pensiero Odoniano. A Shevek sarebbe piaciuto scrivere un articolo sulla relazione tra le idee di Odo e quelle della fisica temporale, in particolare l’influsso della Riversibilità Causale nel modo in cui Odo aveva trattato il problema delle finalità e dei mezzi. Ma a diciott’anni le sue conoscenze non erano sufficienti a permettergli di scrivere un articolo simile, e non lo sarebbero mai state se non si fosse affrettato a tornare alla fisica e ad andarsene via da quella maledetta Polvere.

La notte, nei campi del Progetto, tutti tossivano. Il giorno tossivano meno; avevano troppo da fare, per tossire. La polvere era il loro nemico, le particelle fini e asciutte che intasavano gola e polmoni; il loro nemico e la loro cura, la loro speranza. Un tempo quella polvere era stata all’ombra degli alberi, ricca e scura. Alla fine del loro lungo lavoro, forse lo sarebbe stata di nuovo.

Ella fa nascere la foglia verde dalla pietra,

Dal cuore di roccia la chiara acqua corrente.

Gimar canticchiava sempre un motivo, ed ora, nel caldo del tramonto, mentre tornavano al campo per la pianura, ne cantò le parole a voce alta.

— Chi? — chiese Shevek. — Chi è che fa nascere la foglia?

Gimar sorrise. Il suo viso largo e liscio era sporco e incrostato di polvere, i suoi capelli erano pieni di polvere, ed aveva un forte e simpatico odore di sudore.

— Sono nata negli Altipiani del Sud — rispose. — Dove ci sono le miniere. È un canto dei minatori.

— Minatori?

— Non lo sai? Gente che era già su Anarres quando sono giunti i Coloni. Alcuni di loro sono rimasti e sono entrati nella solidarietà. Cercatori d’oro e di stagno. Conservano ancora qualche loro festa e qualche loro canto. Il tadde era un minatore, me la cantava sempre quando ero piccola.

— Be’, allora, chi è la donna della canzone?

— Non lo so: so solo che la canzone dice così. Ma non si tratta della cosa che facciamo qui, ora? Far nascere dalla pietra le foglie verdi!

— Sembra qualcosa di religioso.

— Tu e le tue parole da sapiente! Si tratta solo di una canzone. Oh, come vorrei essere all’altro campo per farmi una nuotata. Puzzo!

— Anch’io puzzo.

— Puzziamo tutti.

— Nella solidarietà…

Ma il campo distava quindici chilometri dalle rive del Temeniano, e c’era solo la polvere in cui nuotare.

Nel campo c’era un uomo il cui nome, pronunciato, assomigliava a quello di Shevek: Shevet. Quando veniva chiamato uno dei due, rispondeva l’altro. Shevek sentiva una sorta di affinità con lui: una relazione più stretta di quella della fratellanza comune, a causa di questa somiglianza accidentale. Un paio di volte si era accorto che Shevet lo adocchiava. Ma non si erano ancora mai parlati.

Le prime decadi di Shevek al progetto di imboschimento erano passate nella stanchezza e il risentimento muto. La gente che aveva eletto di lavorare in campi di centrale utilità come la fisica non avrebbe dovuto venire chiamata a far parte di questi progetti, con leve speciali! Non era immorale fare un lavoro che non dava gioia a chi lo faceva? Quel lavoro andava fatto, certo, ma c’era un mucchio di persone a cui non piacevano mai gli incarichi che ricevavano, e queste persone cambiavano continuamente occupazione; loro, avrebbero dovuto offrirsi come volontari. Qualsiasi stupido avrebbe potuto fare quel lavoro. Anzi, molti stupidi sarebbero stati capaci di farlo meglio di lui. Egli era orgoglioso della propria forza, e si era sempre offerto volontario per i «lavori pesanti» quando giungeva il decimo giorno, dei servizi a rotazione; ma qui si trattava di farli un giorno dopo l’altro, otto ore al giorno, in mezzo alla povere e al caldo. Per tutta la giornata non pensava che alla sera, al momento in cui avrebbe potuto starsene da solo a pensare, e nell’istante in cui metteva piede nella tenda dormitorio, dopo il pasto serale, la testa gli ciondolava ed egli dormiva come un sasso fino all’alba, e neppure un pensiero gli si formulava nella mente.