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All’interno della nave Pensiero stavano succedendo molte cose. Poiché il centro di Controllo aveva anticipato l’orario della partenza, tutte le routine dovevano essere eseguite di corsa. Il capitano aveva ordinato di legare il prigioniero con le cinture di sicurezza e di chiuderlo nel quadrato dell’equipaggio, insieme con il medico, per toglierseli dai piedi tutt’e due. C’era un teleschermo, nel quadrato, e se desideravano guardare il decollo, potevano guardarlo da lì.

Il passeggero osservava lo schermo. Vedeva il campo, e il muro che lo circondava, e lontano, al di là del muro, le pendici dei Ne Theras, punteggiati di holum cespugliosi e di rade, argentee spine di luna.

Tutto questo, d’improvviso, si precipitò verso il basso con vertiginosa rapidità. Il passeggero si sentì premere la testa contro l’appoggio imbottito. Era come l’esame del dentista: la testa tirata all’indietro, la mascella tenuta aperta con la forza. Non riusciva a prendere il fiato, si sentiva male, si sentiva sciogliere le budella per la paura. L’intero suo corpo gridava alle enormi forze che si erano impadronite di lui: Non ora, non ancora, aspettate!

Gli occhi lo salvarono. Ciò che continuavano a vedere e a riportargli con insistenza lo fece uscire dall’autismo del terrore. Ora sullo schermo compariva una strana vista, un grande, pallido pianoro di pietra. Era il deserto, visto dalle montagne che dominavano la Valle Grande. Come era tornato alla Valle Grande? Cercò di dire a se stesso che era su un velivolo. No, su una nave spaziale. Il bordo del pianoro brillava con la lucentezza della luce sull’acqua, della luce che giunge dall’altra sponda di un mare lontano. Non c’era acqua in quei deserti. Che cosa stava osservando, allora? Il pianoro di pietra non era più un piano, ma una cavità, una grossa tazza piena di luce. Mentre la guardava meravigliato, divenne meno profonda, e versò fuori del bordo la sua luce. D’improvviso una linea l’attraversò: una linea astratta, geometrica, la perfetta sezione di un cerchio. Al di là di quell’arco c’era l’oscurità. E l’oscurità rovesciò l’intera immagine, facendola diventare negativa. La parte reale, la parte di pietra, non era più concava e piena di luce, bensì convessa, e rifletteva, rimandava la luce. Non era né un piano né una tazza, ma una sfera, una palla di pietra bianca che cadeva nell’oscurità, che s’allontanava. Era il suo mondo.

— Non capisco — disse a voce alta.

Qualcuno gli rispose. Per qualche tempo non riuscì a comprendere che la persona ferma accanto alla sua poltroncina si rivolgeva a lui, gli rispondeva: in quel momento non sapeva più che cosa fosse una risposta. Era chiaramente consapevole di una cosa soltanto: il suo totale isolamento. Il mondo gli era caduto via da sotto i piedi, ed egli era rimasto solo.

Aveva sempre temuto che succedesse una cosa simile, più di quanto non avesse temuto la morte. Morire è perdere se stessi e riunirsi al resto. Egli aveva mantenuto se stesso, e aveva perso il resto.

Alla fine riuscì ad alzare lo sguardo sull’uomo che gli stava accanto. Era uno straniero, naturalmente. D’ora in poi ci sarebbero stati unicamente stranieri. L’uomo si rivolgeva a lui in lingua straniera: iotico. Le parole avevano senso. Tutte le piccole cose avevano un senso; soltanto l’intero, la totalità, non l’aveva. L’uomo diceva qualcosa a proposito delle cinghie che lo tenevano legato alla poltroncina. Toccò qualcosa sotto lo schienale, che si raddrizzò e per poco non lo fece cadere a terra, nella sua condizione di stordimento e di mancanza di equilibrio. L’uomo cominciò a chiedere se qualcuno s’era fatto male. Di chi parlava? «È sicuro che non si è fatto male?» La forma educata con cui ci si rivolgeva a un’altra persona in iotico era la terza persona. L’uomo parlava di lui. Ed egli non capiva perché dovesse essere ferito; l’uomo continuava a parlare di gente che tirava le pietre. Ma la pietra non giungerà mai a colpire, pensò. Posò lo sguardo sullo schermo, cercando la pietra bianca che cadeva nell’oscurità, ma lo schermo era spento.

— Mi sento bene — disse infine, scegliendo la frase a caso.

Non parve avere il potere di tranquillizzare l’uomo. — Per favore, venga con me. Sono un dottore.

— Mi sento bene.

— Per favore, venga con me, dottor Shevek!

— Lei è un dottore — rispose Shevek, dopo una breve pausa. — Io no. Io mi chiamo Shevek.

Il dottore, un uomo di bassa statura, dalla pelle chiara, calvo, gli rivolse un sorriso ansioso, stentato. — Lei dovrebbe trovarsi nella sua cabina, signore… pericolo d’infezione… lei non avrebbe dovuto incontrare altri che me, ho passato due settimane in zona di disinfezione per niente, accidenti a quel capitano! Per favore, venga con me, signore. Mi riterranno responsabile se…

Shevek si accorse che quel piccolo uomo era scosso. Non provava nessun rimorso, nessun dispiacere per lui; ma anche nella condizione in cui era in quel momento, nella solitudine assoluta, la legge fondamentale era valida: l’unica legge che avesse sempre rispettato. — Va bene — disse, e si alzò in piedi.

Si sentiva ancora stordito, e la spalla destra gli doleva. Sapeva che la nave si stava muovendo, ma non avvertiva nessuna sensazione di moto; c’era soltanto il silenzio, un silenzio spaventoso, profondo, dall’altra parte delle paratie. Il dottore lo condusse per silenziosi corridoi di metallo, fino a una stanza.

Era una stanza molto piccola, con pareti spoglie, segnate da linee. Shevek provò un senso di repulsione, ricordando un luogo che non desiderava ricordare. Si arrestò sulla soglia. Ma il dottore insistette e pregò, ed egli entrò.

Si sedette sul letto a forma di scaffale, e, con la testa ancora leggera e sonnolenta, osservò, privo di curiosità, il dottore. Sentiva che avrebbe dovuto provare curiosità: quell’uomo era il primo urrasiano da lui visto. Ma era troppo stanco. Avrebbe preferito stendersi sul letto e mettersi immediatamente a dormire.

Era rimasto sveglio tutta la notte precedente, occupato a imparare le proprie carte. Tre giorni prima, aveva provveduto a mandare a Pace e Abbondanza Takver e i bambini, e da quel momento in poi era stato occupatissimo, a correre alla torre radiofonica per scambiare messaggi dell’ultimo istante con gente di Urras, a discutere progetti e occasioni con Bedap e gli altri. Per tutti quei giorni precipitosi, da quando era partita Takver, non gli era parso di essere lui a fare le cose, ma che fossero le cose stesse a farlo agire, di loro volontà. Si era trovato nelle mani di altre persone. La sua volontà non aveva agito. Non c’era stato bisogno che agisse. Ma era stata la sua volontà a dare l’avvio a tutto, a creare il momento ch’egli viveva, le pareti che lo circondavano. Quanto tempo prima? Anni. Cinque anni prima, nel silenzio della notte, a Chakar, sulle montagne, quando aveva detto a Takver: «Andrò ad Abbenay ad abbattere i muri.» E già prima di allora; molto prima, nella Polvere, negli anni della carestia e della disperazione, quando aveva promesso a se stesso che non avrebbe mai agito se non per propria libera elezione. E seguendo quella promessa era giunto lì: a quel momento senza un tempo, a quel luogo senza una terra, a quella piccola stanza, quella prigione.