I suoi accompagnatori lo condussero a un edificio e una stanza che, come gli spiegarono, era «sua».
Era ampia, lunga circa dieci metri, ed evidentemente si trattava di una camerata comune, dato che non c’erano divisioni né predelle per dormire; evidentemente, i tre uomini rimasti con lui dovevano essere i suoi compagni di stanza. Era una bellissima camerata, con una parete composta interamente di una serie di finestre, divise tra loro mediante sottili colonne che si innalzavano, simili ad alberi, fino a formare un doppio arco, in cima. Il pavimento era ricoperto di un tappeto rosa, e all’altro estremo della stanza c’era un fuoco, in un focolare aperto. Shevek attraversò la stanza e si fermò davanti al fuoco. Non aveva mai visto bruciare del legno per riscaldarsi, ma ormai non si stupiva più di nulla. Tese le mani verso il piacevole tepore, e si sedette su una panca di marmo levigato, accanto al focolare.
Il più giovane dei suoi accompagnatori si sedette di fronte a lui. Gli altri due erano ancora intenti a parlare tra loro. Parlavano di fisica, ma Shevek non aveva tentato di ascoltare il loro discorso. Il giovane disse in tono tranquillo: — Mi chiedo come si possa sentire, dottor Shevek.
Shevek allungò le gambe e si piegò in avanti per sentire sul volto il tepore del fuoco. — Mi sento pesante.
— Pesante?
— Forse la gravità. O sono stanco.
Alzò lo sguardo sull’altro, ma tra loro c’era il bagliore del fuoco, e il volto del suo accompagnatore non si distingueva chiaramente: soltanto il luccichio di una catena d’oro e il rosso scuro e brillante della toga.
— Non conosco il suo nome.
— Saio Pae.
— Oh, Pae, già. Conosco i suoi articoli sul Paradosso.
Parlava con voce pesante, insonnolita.
— Ci dev’essere un bar, qui. Le stanze degli Anziani di Facoltà hanno sempre l’armadietto dei liquori. Desidera qualcosa da bere?
— Acqua, sì.
Il giovane riapparve con un bicchiere d’acqua mentre gli altri due si avvicinavano per unirsi a loro accanto al fuoco. Shevek bevve avidamente l’acqua e si mise a fissare il bicchiere che stringeva in mano: un oggetto fragile, delicatamente sagomato, che rifletteva il bagliore del fuoco sul bordo dorato. Si accorse della presenza dei tre uomini, del loro atteggiamento, mentre stavano accanto a lui, in piedi o seduti, protettivi, rispettosi, proprietari.
Sollevò lo sguardo su di loro, e osservò un volto dopo l’altro. Tutti lo fissarono, in attesa. — Bene, mi avete — egli disse. E sorrise. — Avete il vostro anarchico. Che cosa contate di farne?
CAPITOLO 2
All’interno di una finestra quadrata, nel muro bianco, c’è il cielo luminoso e nudo. Al centro del cielo c’è il sole.
Ci sono undici bambini piccoli nella stanza, quasi tutti stipati a coppie, o a tre per volta, dietro la ringhiera di lettini imbottiti, e scivolanti pian piano, tra movimenti ed elocuzioni, nel riposo del sonno. I due più vecchi sono ancora in libertà: uno grasso e attivo, intento a smontare un gioco di costruzioni, e uno magro e nodoso, seduto nel quadrato di luce gialla proveniente dalla finestra, con lo sguardo fisso nel sole e sul viso un’espressione sciocca e tranquilla.
Nell’anticamera, la governante (una donna con un occhio solo e dai capelli grigi) parla con un uomo alto, dall’aria mesta, sulla trentina. — La madre ha ricevuto un incarico ad Abbenay — dice l’uomo. — Ma preferisce che lui resti qui.
— Dobbiamo tenerlo nel nido a giornata piena, allora, Palat?
— Sì. Io tornerò ad abitare in un dormitorio.
— Non preoccuparti, qui ci conosce tutti! Ma certo la Divisione Lavoro ti manderà presto a raggiungere Rulag? Visto che siete compagni, ed ingegneri entrambi? …
— Sì, ma lei è… Ecco, l’hanno chiamata loro, vedi, dall’Istituto Centrale d’Ingegneria. Io non sono bravo come lei. A Rulag è stato assegnato un lavoro molto importante.
La governante annuì col capo, e sospirò. — Ma anche così! … — incominciò con energia, poi non aggiunse altro.
Lo sguardo del padre era puntato sul bambino magro, il quale non aveva ancora notato la sua presenza, dato che si interessava solamente della luce. Il bambino grasso, in quel momento, si stava avvicinando a lui con rapidità, anche se con un’andatura piuttosto raggomitolata, causata da un pannolino bagnato e tendente a scivolare via. Si avvicinò spinto dalla noia o per socievolezza, ma una volta giunto nel quadrato di luce scoprì che laggiù era caldo. Si sedette a terra pesantemente accanto al bambino magro, e lo spinse nell’ombra.
L’espressione vacua e rapita del bambino magro lasciò immediatamente il posto a una smorfia di rabbia. Spinse il bambino grasso, strillando: — Via!
La governante fu immediatamente sul luogo del dissenso. Raddrizzò il bambino grasso. — Shev, non devi spingere gli altri.
Il bambino magro si drizzò in piedi. Il suo viso era illuminato dal sole e distorto dalla rabbia. Il pannolino minacciava di cadere. — Mio! — esclamò con voce acuta, penetrante. — Mio, sole!
— No, non è tuo — disse la donna senza un occhio, con la pacatezza di chi enuncia una profonda certezza. — Non c’è niente di tuo. Ogni cosa è da usare. Da dividere con gli altri. Se non sei disposto a dividerla, non puoi neppure usarla. — E prese con mani delicate e inesorabili il bambino magro e lo trasportò via lontano dal quadrato di luce solare.
Il bambino grasso rimase lì seduto, con lo sguardo assorto, indifferente. Quello magro si agitò tutto, strillò: — Mio, sole! — e scoppiò in lacrime di rabbia.
Il padre lo prese in braccio. — Su, basta, Shev — disse. — Su, sai bene che non puoi avere le cose. Cosa c’è, che non va? — La sua voce era bassa, e tremava come se anch’egli non fosse molto lontano dal pianto. Il bambino sottile, lungo, leggero fra le sue braccia piangeva con passione.
— C’è qualcuno che non riesce a non prendersela, tutto qui — disse la donna senza un occhio, fissandoli con simpatia.
— Ora lo porto al domicilio per una visita. La madre parte questa sera, capisci.
— Fai pure. Spero che vi diano presto un incarico comune — disse la governante, sollevando il bambino grasso e ponendoselo sull’anca come un sacco di grano. Aveva un’espressione melanconica sul viso e batteva le palpebre dell’occhio buono. — Ciao ciao, Shev, cuoricino mio. Domani, sentimi bene, domani giocheremo a fare il carrettino.
Ma il bambino non l’aveva ancora perdonata. Singhiozzò, stretto al collo del padre, e nascose la faccia nell’oscurità del suo sole perduto.
L’Orchestra aveva bisogno di tutte le panche, quel mattino, per le prove, e il gruppo di danza era occupato a ballare nella stanza più grande del centro d’apprendimento, cosicché i bambini che lavoravano al Parlare e Ascoltare sedevano in cerchio sul pavimento di pomice del laboratorio. Il primo volontario, un bambino allampanato di otto anni, con mani e piedi lunghi, si alzò. Stava in piedi molto dritto, da bambino in buona salute; il suo viso velato di una leggera peluria era pallido, all’inizio, ma presto divenne rosso, mentre aspettava che gli altri bambini gli dessero ascolto. — Parla, Shevek — disse il direttore del gruppo.
— Be’, avevo un’idea.
— Più forte — disse il direttore, che era un uomo di corporatura massiccia, di poco più di vent’anni.
Il bambino sorrise con imbarazzo. — Be’, vedi, pensavo: diciamo, ad esempio, che tu getti una pietra contro qualcosa. Contro un albero. Tu la getti, e la pietra viaggia nell’aria e colpisce l’albero. Giusto? Ma invece non può farlo. Perché… posso avere la lavagna? Ecco, questo sei tu che getti la pietra, e questo è l’albero — tracciò dei segni sulla lavagna, — ecco, questo dovrebbe essere l’albero, e qui la pietra, a metà strada tra i due. — I ragazzi ridacchiarono di fronte al suo disegno di una pianta di holum, ed egli sorrise. — Per passare da te all’albero, la pietra deve trovarsi a metà strada tra te e l’albero, vero? E poi deve trovarsi a metà tra la metà e l’albero. E poi a metà tra lì e l’albero. Non importa dov’è arrivata: c’è sempre un punto, che però in realtà è un tempo, posto a metà strada tra l’ultimo punto dove l’abbiamo messa e l’albero…